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giovedì 21 maggio 2015

Italiani, quale gente?


Si fa presto a dire “molti nemici molto onore". Perché dipende dai nemici che uno si ritrova. Rodolfo Graziani (nella foto) gran colonizzatore dei territori libici e di quelli dell’Africa Orientale, di nemici ne aveva ovunque.
Ed era capace di scovarne anche dove non esistevamo.
Aveva uno stile tutto suo, fin da quando, ventenne studente universitario a Roma, perde il padre iniziando una guerra personale contro tutto e contro tutti.
Stanziato prima in Eritrea, chiede di partecipare alla spedizione che punta su Tripoli.
Tripoli, bel suol d'amore, 
ti giunga dolce questa mia canzon, 
sventoli il Tricolore sulle tue torri 
al rombo del cannon! 
Dovrà rimandare l’appuntamento per il morso di un serpente velenoso mentre dorme nella sua tenda. All'ospedale di Asmara prende pure la malaria, ma niente può fermare la sua straordinaria ascesa ai vertici militari e coloniali.
Le terre e le popolazioni africane porteranno per anni impresso il marchio indelebile dello “stile Graziani”.
Come nella repressione durante la guerra in Africa Orientale. Per sconfiggere la resistenza delle popolazioni locali non esita ad usare tutto l’armamentario possibile.

Dai bombardamenti aerei di massa all’uso (per la prima volta) di gas asfissianti come l’iprite infrangendo il patto della Società delle Nazioni. Con il beneplacito di Mussolini naturalmente.
Due sue direttive: «Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco» (27 ottobre 1935).
"Autorizzo vostra eccellenza all’impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme" (28 dicembre 1935).
Per la prima volta un popolo che si ritiene civilizzato usa i gas tossici contro un popolo che si ritiene barbaro.

Etiopia, la cui popolazione è un nemico certamente inferiore di numeri e mezzi, ma determinato a combattere per la propria terra contro quello che ritiene un invasore, un distruttore delle loro tradizioni millenarie.
Ed è qui che inizia la nostra storia.

19 febbraio 1937 – Addis Abeba
In occasione della nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto II di Savoia, Rodolfo Graziani ha dato l’ordine di preparare una cerimonia pubblica per festeggiare l’evento.
Vuole imitare un’antica usanza etiope e fa distribuire ai poveri della città due talleri d’argento, il doppio di quanto ha da sempre distribuito Hailè Selassiè in occasioni del genere.
Molta gente quindi si è presentata nel palazzo imperiale. Ma accade qualcosa. Due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro il palco 7 o 8 bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani, colpito da 350 schegge.
Momenti di panico, urla, le porte del palazzo vengono immediatamente chiuse per evitare la fuga degli attentatori. La folla cerca di fuggire, ma il fuoco della fucileria è tremendo. Gli spari durano tre ore e molte persone restano sul terreno.
Chi si salva viene ucciso nei saloni del palazzo a colpi di scudiscio. Seppur ferito Graziani ordina una vera caccia all’uomo.
La strage ha inizio, in una escalation senza precedenti. Le case sono incendiate, come pure bestiame e raccolti.

28 febbraio 1937 – Addis Abeba
Graziani propone di radere al suolo la parte vecchia della città di Addis Abeba e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento. Mussolini si oppone per paura di più decisive reazioni internazionali, pur confermando l'ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine poi esteso a tutti i governatori dell'Impero. Le esecuzioni proseguono.

10 marzo 1937 – Addis Abeba
Graziani ha ordinato la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. Mussolini si congratula.

7 aprile 1937 – Addis Abeba
Graziani telegrafa al generale Maletti che il territorio deve “essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco”. Precisa : "Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze". Vengon fatti arresti in massa: "mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti".
"Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta".
Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente.

20 febbraio 1937
Per tutta la notte, con un accanimento anche più feroce che nella notte precedente, si continua l'opera di distruzione dei tucul.
La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alla masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione.
Gli uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive. "Episodi orripilanti di violenze inutili".
Da una statistica dell'attività dell'Arma dei carabinieri, firmata dal colonnello Hazon e datata 2 giugno, si ricava che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni.
Ciro Poggiali racconta l'episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia "uccide tutta la famiglia compresi i bambini".
E ancora, sui metodi dei carabinieri: “Sul piazzale del tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla così detta giustizia, hanno importato dall'Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi.

Il capitano degli alpini Sartori è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L'ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare.
Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano Sartori. Morirà pazzo e smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya.

20 maggio 1937  
Debra Libanos è un convento di tradizione cristiana copta, uno dei luoghi più sacri del territorio etiope.
Graziani è furibondo.
E’ convinto che nel monastero abbiano trovato protezione i responsabili dell’attentato. Graziani ha dato l’ordine al generale Pietro Maletti: distruggere Debra Libanos.
Secondo lui i monaci hanno aiutato e dato riparo agli attentatori. Il suo battaglione, composto da cristiani copti, è poco adatto ad un’azione del genere. Meglio sostituirlo con uno somalo musulmano, più adatto alla repressione di cristiani.
Le truppe (un battaglione di ascari mussulmani e la banda galla "Mohamed Sultan"), comandate dal generale Pietro Maletti, partono per raggiungere Debra Libanos, città conventuale, uno dei luoghi più sacri del cristianesimo copto.

Lungo la strada (i 150 km che da Addis Abeba portano alla città-convento di Debrà Libanòs) verranno incendiati 115.422 tucul, tre chiese e un convento, mentre ben 2.523 sono i "ribelli" giustiziati.
I monaci, compreso il vicepriore, sono stati portati sull’orlo della stretta gola di Zega Waden a bordo di una quarantina di camion.
Vengono incappucciati e fatti accucciare al bordo di un piccolo crepaccio, uno fianco all’altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore, interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.
Graziani non è ancora soddisfatto.
Ordina al generale Maletti di uccidere anche i giovani seminaristi. Nessuna pietà. Maletti ubbidisce.
Torna ad Addis Abeba lasciando nel crepaccio 449 monaci (tra cui 129 diaconi giovanissimi) e 23 laici. (Studiosi dell'Università di Nairobi e di Addis Abeba hanno stabilito che il numero delle vittime del massacro è compreso tra 1.423 e 2.033 uomini)

La strage di Debra Libanos rimane una pagina nera della nostra storia d’Italia, dimenticata rimossa e soprattutto censurata. Uno dei tanti crimini commessi da noi italiani.
Insomma il mito degli italiani ‘brava gente’ non deve  essere mai messo in discussione. 


Il dominio coloniale italiano in Etiopia finirà solo con la sconfitta del 1941 ad opera dei britannici e con il ritorno sul trono dell’imperatore Hailè Selassiè. Arresosi alle truppe anglo-americane nel 1945, Graziani fu processato nel 1948 per il ruolo svolto nella Repubblica Sociale Italiana (non per i crimini commessi in Etiopia)  e condannato a 19 anni di carcere, 17 dei quali condonati. Rimase in carcere solo quattro mesi. Nel 1953 divenne presidente onorario del MSI ma in contrasto con alcuni camerati preferì ritirarsi a vita privata. Muore nel 1955 nella sua casa di Roma.

Johannes Bückler

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