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martedì 31 maggio 2016

"Mussolini ha fatto anche delle cose buone".


Un passo indietro 

Giugno 1948 
Il Ministro delle Finanze Ezio Vanoni ha ricevuto l’incarico di migliorare un sistema tributario antiquato. Un sistema costituito da numerose imposte che grava soprattutto sui ceti medi rispetto, per esempio, alla grande borghesia. Le imposte dirette sono solo ¼ delle entrate fiscali. E’ necessario commisurare l’imposta al reddito realizzato ed applicarla alla realtà.

Gennaio 1951
Legge 11 gennaio 1951, n. 25, detta anche legge Vanoni. E’ il primo atto legislativo di perequazione tributaria. Suo scopo è quello di instaurare, attraverso la dichiarazione, un nuovo clima nei rapporti con il fisco. La dichiarazione sarà annuale, analitica ed unica, e permetterà al fisco di conoscere la situazione complessiva del contribuente. La legge Vanoni ha inoltre disposto una nuova tabella di aliquote, che va da un minimo del 2% ad un massimo del 50%, riconoscendo al tempo stesso il minimo esente di 240.000 lire e la detrazione di 50.000 lire per ogni membro a carico del contribuente, incluso il coniuge.

Sabato 27 gennaio 1952 
La sede dell’Ufficio Tributi del Comune di Roma si trova in via del Teatro di Marcello. Coincidenza vuole che si trovi a pochi metri dalla “Bocca della Verità”. Oggi è un giorno particolare, atteso da molti giornalisti. In base alla legge Vanoni, ogni comune è tenuto a rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi dei cittadini italiani. Tra poco quelle del 1951 che fanno riferimento ai redditi del 1950. I giornalisti però stanno aspettando soprattutto quelle dei politici. Troppo forte la tentazione di beccare qualche potente di turno in castagna.
Non sanno ancora quello che sta per accadere.

I corridoi del pianterreno dell’Ufficio Tributi sono affollatissimi. Oltre ai giornalisti ci sono molti cittadini comuni. Chiaro il loro intento. Sono lì perché vogliono conoscere le cifre dichiarate da amici e conoscenti. La curiosità è enorme.

Si inizia.
Per i giornalisti la caccia ai redditi delle varie personalità, della nobiltà, dello spettacolo, ma quando arrivano alla parte riguardante i politici qualcosa non torna.

Il primo nome è quello del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, tra i primi a consegnare la dichiarazione dei redditi. Il Capo dello Stato ha dichiarato per l’anno 1950 una cifra pari a 1.259.000 . Subito dopo Einaudi con lire 1.290.000, Campilli con 8.337.125 e Merzagora con 6.500.000. Il senatore Mario Cingolani 1.328.425 e il senatore Giorgio Tupini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio 1.940.000.

Prime perplessità: il ministro Vanoni ha dichiarato solo 181.300 lire. De Gasperi ancora meno, 108.000 lire. E poi? Niente. Non ci sono tracce di altri politici. Tutti gli altri non hanno dichiarato redditi.

Dove sono i redditi di Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Mario Scelba, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Renato Angiolillo, Mauro Scoccimarro, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Saragat? Tutti nullatenenti? Impossibile. Per stare sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama lo Stato corrisponde loro 250.000 lire mensili quindi 3.000.000 di lire annui. Ministri e  sottosegretari ricevono un’indennità ancora maggiore. Perché allora i maggiori esponenti politici italiani non hanno dichiarato nulla? Il mistero viene svelato quasi subito.

Quasi tutti i politici non hanno dichiarato redditi nel 1950 grazie ad una legge fascista del 30 novembre 1929. Mentre la dittatura cancellava tutte le libertà, il ministro delle Finanze del governo guidato da Benito Mussolini, Antonio Mosconi, stabiliva che le indennità parlamentari fossero esenti dal prelievo fiscale.

La dittatura è finita, ma si sono tenuti questo privilegio. Non pagare le tasse sfruttando una legge fascista. Una legge non solo mai abrogata (come era successo alle altre) ma addirittura ribadita con la legge n. 1102 del 9/08/1948. Con 338 voti favorevoli, 37 contrari e 2 astenuti.

Diversi i tentativi di cancellare la legge n. 1102 del 9/08/1948.

13 Marzo 1952 
Proposta di legge del deputato Rodolfo Vicentini (DC) per la cancellazione dell’art. 3 della legge n. 1102 del 9/08/1948. 

Ma la maggioranza non è d’accordo.

27/01/1954. 
Altra proposta di Vicentini. Ma non se ne fa niente. 

1958
E poi ancora. Flavio Orlandi (PSDI).

Troppi i cassetti negli edifici del Parlamento. Le proposte di legge spariscono.

1962 
Malagodi del PLI ritrova la proposta di legge Vicentini e la ripropone in Parlamento. Ma ad aprile si vota. Viene riposta nel cassetto.

1963 
Giuseppe Amadei (PSDI) la ritrova e la ripropone più articolata. Ma sparisce in un altro cassetto.

1965 
Con l’opinione pubblica sempre più arrabbiata finalmente la legge n. 1102 del 9/08/1948 viene cancellata con la legge 31 ottobre 1965, n. 1261



Però non esageriamo…

Sempre per non esagerare nello stesso giorno si aumentarono l’indennità parlamentare da 500.000 lire mensili nette a 800.000 lire lorde (750.000 nette).
Della serie,“calma con i facili entusiami”.


Sì, Mussolini ha fatto anche delle cose buone. Insomma...

Johannes Bückler


giovedì 29 ottobre 2015

Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.


Quando ho letto le dichiarazioni di Cantone “Milano torna a essere capitale morale, Roma non ha gli anticorpi” e le successive discussioni, mi sono ricordato di un vecchio articolo del grande Francesco Rosso e soprattutto di un vecchio slogan di Arrigo Benedetti : «Capitale corrotta, paese infetto».

Questo l’articolo apparso su La Stampa il 3 maggio 1981.

Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.
C'è una canzone su Roma, i cui versi essenziali dicono: "Roma capoccia-der monno infame". La capitale nostra, quindi, dovrebbe essere l'emblema dell'infamia universale, a giudizio del cantautore di cui non ricordo il nome. Poi la situazione si ribalta bellamente, all'italiana; il monno infame, di cui alla canzone, non è l'universo, e nemmeno il limitato mondo romanesco, ma l'Italia, evidentemente.
A meno che vogliamo rivendicare i diritti sull'impero di quell'altra Roma, per cui ci spetterebbero i danni di guerra da mezzomondo, Libia compresa, che invece li pretende da noi. No, il monno infame si riferisce proprio all'Italia, esclusivamente, il paese di cui Roma è la capitale autentica, nel senso che ci rappresenta compiutamente.
Quante volte ci accade di pronunciare vituperi contro Roma considerandola generatrice di ogni nostro malanno, di grida contro Garibaldi e Vittorio Emanuele II perché hanno voluto togliere al Papato la sua sede naturale e farne la capitale d'Italia. Ovunque sarebbe stato meglio, a Torino che fu la sede primigenia dell'Italia unita; Firenze, che fu la seconda; Milano che continua ad essere (ma lo è ancora?) la capitale morale; ma non Roma, città corruttrice di ogni valore, sentina di bassezze, tradimenti, eccetera.
Anni addietro, per indicare il malcostume politico nostrano, un giornalista-scrittore di buona fama, Arrigo Benedetti, lanciò uno slogan che ebbe fortuna: «Capitale corrotta, paese infetto». Era una diagnosi quasi esatta, ma soltanto quasi, nel senso che doveva essere rovesciata. Sarebbe stato più esatto scrivere: «Paese infetto, capitale corrotta». Perché è facile addossare a Roma tutte le infamità ma solo se facciamo astrazione da un fatto incontestabile; la Roma che conta, che ci governa e guida, non è fatta di romani de Roma, ma da italiani de Italia, ognuno con le sue qualità e difetti (purtroppo più numerosi i secondi). La Roma di cui sempre si parla è espressa da un parlamento, da un governo, da capigabinetto, funzionari, capoccioni della finanza palese e occulta, da portaborse, mestatori, traffichini facilmente identificabili dalla pronuncia; è un'Italia che va «dall'Alpi al Lilibeo» concentrata nello spazio non più esiguo della Caput Mundi, insediata fra i ruderi dei Fori Imperiali l'Ara Pacis, il Colosseo, la Colonna Traiano, la piramide di Caio Cestio, gli Acquedotti e le Tombe dell'Appio Antica.
A grattare anche poco, vien fuori una Roma che di romano ha conservato soltanto i ruderi imperiali ed una certa parlata rabbiosa di Trastevere; il resto ha cadenze meneghine, venete, sicule, calabre, apule, campane, etnische, gianduiotte, con il resto che è facile identificare. Roma, quella che conta e comanda, è fatta da italiani che noi, votando, mandiamo a rappresentarci nella capitale, e costoro, grazie al nostro mandato, scelgono i loro collaboratori, che a loro volta scelgono gli amici, poi gli amici degli amici; e avanti di questo passo.
Roma, quindi, riflette noi come uno specchio, ed il monno infame di cui è capoccia, è composto da noi tutti, cittadini del Bel Paese. Mi pare una distinzione che doveva essere fatta, non per rivalutare e difendere Roma, che non ha bisogno, ma per stabilire alcuni principi da cui si può partire per esprimere un giudizio sulla nostra capitale. Roma è quello che è, una città singolare che già non piaceva molto a Cola di Rienzo prima, al Belli più tardi, i quali però erano poi tenerissimi verso la loro città quando si esprimevano in privato.

Di Roma si può sparlare, anche vituperarla, ma non si può non amarla. E' un emblema che, talvolta, vorremmo calpestare, distruggere; ma subito ci rendiamo conto quale guaio sarebbe se non ci fosse. E dobbiamo ringraziare di averla come capitale proprio per ciò che è stata in passato. Quante grandi città antiche sono sopravvissute alla loro fama, alla loro potenza? Prendiamo Atene. C'è il Partenone, e basta. Qualche statua nei musei, il ricordo delle Olimpiadi, ora rivendicate ai fenici da uno storico libanese, un paio di teatri famosi sparsi qua e là in tutta la Grecia, e non andiamo oltre. Tebe dalle cento porte in Egitto è ridotta a pochi avanzi Non parliamo di Babilonia e Ninive, note soltanto agli archeologi ed a turisti specializzati.
Roma, invece, è lì da sempre, corrotta ed incorruttibile, e proprio per questo unica, irripetibile, insostituibile. Un'Italia senza Roma capitale non è pensabile, e se Garibaldi fece tanto per conquistarla ed i garibaldini si fecero massacrare per farne una repubblica sfidando i chassepots di Napoleone il Piccolo, un motivo l'avevano, e dobbiamo essergli grati che abbiano scatenato le ire degli imperi di Francia ed Austria per contenderla al papa. La breccia di Porta Pia è già un po' mitologica, ma nella nostra storia vale quanto le Termopili greche contro i persiani E' un simbolo che, al di fuori della rettorica scolastica, non conoscerà tramonti A parte le considerazioni di valore nazional-patriottico, ci sono quelle sentimen tal-religiose.
A Roma c'è il Papa, che abita nella Città del Vaticano, il più piccolo Stato del mondo che però fa sentire la sua voce in ogni angolo della terra. Non ha potere temporale, non ha eserciti, tranne alcune guardie svizzere abbigliate alla rinascimentale da Michelangelo, si dice, ma quando parla dalla sua finestra il papa si rivolge davvero urbi et orbi, a Roma ed al mondo, ed è ascoltato come nessun altro monarca di questa terra.
Vola in Messico, nelle Filippine, in Giappone, in Africa, all'Onu, ed ovunque è accolto da folle immense. E' soltanto isterismo collettivo, entusiasmo contagioso? Bisogna andar cauti nel giudicare questo fenomeno, dargli una patente.
Roma, dunque, è una città composita, fatta di bellezze entusiasmanti e di desolanti bassezze, che però non sono un suo privilegio. Privilegi suoi sono Piazza di Spagna, la Scalinata di Trinità dei Monti, San Pietro ed il colonnato del Bernini, la Basilica di Massenzio, il Colosseo, la Passeggiata Archeologica, l'Arco di Costantino, il Tempio di Vesta e tanti altri grandiosi monumenti che soltanto una guida turistico-archeologica può elencare.
Roma è com'è, splendidamente becera e civilissima, con le tavolate di commensali sbracati nelle osterie di Trastevere, le folle sudanti e urlanti sul Lido di Ostia; e delle raffinate boutiques di via Condotti del Caffè Greco, di Piazza del Popolo e di via Veneto.
Roma non è soltanto il nome di una città, è l'espressione di un mondo che ci appartiene, del quale non possiamo fare a meno, anche se spesso vengono alla lingua insulti folgoranti.
Che poi a guardar bene, sono diretti a liguri, lombardi marchigiani romagnoli come già detto avanti i quali più che Roma, rappresentano l'Italia.

Francesco Rosso su La Stampa – 03 maggio 1981 

Scomparso a Torino nel 1991 a 81 anni, Francesco Rosso, giornalista nato a Pertengo, esordì sulle pagine dell' Opinione e poi su quelle della Gazzetta del Popolo, per passare poi, nel 1954, a La Stampa, dove rimase fino alla pensione. ‘Cecco’ Rosso, come lo hanno chiamato affettuosamente generazioni di giornalisti firmò come inviato speciale servizi ed interviste memorabili, tra le quali quelle al Negus, a Ben Gurion e a Che Guevara.
Nel 1975, su sollecitazione di Giovanni Arpino che dirigeva la rivista Il Racconto, costruì una sorta di reportage in cui rievocava i suoi viaggi a Zanzibar quando nel 1960 era ancora colonia britannica. Pubblicò le sue note di viaggio al Gargano di chi lo percorse in lungo e in largo nel corso del Novecento. Francesco Rosso aveva lasciato la professione attiva nel 1976, pur continuando, per anni, a collaborare con varie testate. Riposa accanto alla moglie nel Cimitero di Pertengo.

Johannes Bückler


lunedì 8 dicembre 2014

Gli inamovibili.


E’ notizia delle ultime ore che il sindaco di Roma, Marino, ha disposto la rotazione dei Dirigenti comunali. A tale proposito vorrei segnalare una mia riflessione sull’argomento: perché solo oggi si pensa a porre un rimedio a tanti disastri?
Quanto sia necessario sottoporre a trasferimenti e nuovi incarichi, tutti quei dirigenti che occupano posizioni apicali e decisivi per un’azienda, l’avevo già esposto in una nota rubrica del Corriere della Sera.
Tutto nasce dopo aver letto l’intervista di alcune settimane fa all’ex Commissario della spending review Cottarelli. Testualmente dichiarava "Non mi davano neanche i documenti. Le resistenze dei burocrati a Roma". Sono stato assalito da una forma di rabbia e comunque - per i miei trascorsi - mi sono sentito chiamato in causa.
In particolare quando il Commissario ha dichiarato (con riferimento ai capi di gabinetto) che “si conoscono tutti tra loro, parlano tutti lo stesso linguaggio” e di quelli che “scrivono leggi lunghissime, difficilmente leggibili”.
A tale proposito mi viene spontaneo segnalare come una qualsiasi azienda (lo Stato lo è a tutti gli effetti, ha un bilancio con cui fare i conti e degli obiettivi da raggiungere), al fine anche di una gestione trasparente ed efficace, debba necessariamente sottoporre a continui spostamenti i dirigenti preposti.
Ciò è necessario per tanti motivi. Ne cito uno per tutti: si evita la nascita di legami con il territorio, causa di tanti scandali. La nascita di queste amicizie, prima o poi impongono richieste di favori o privilegi.
Vedi tutti gli scandali degli ultimi tempi. A tutto ciò si può ovviare, invitando (sarebbe più giusto dire “obbligando” per norme interne all’azienda o all’Amministrazione, sindacati permettendo) i dirigenti, in occasione di promozioni, di assumere i nuovi incarichi e il nuovo grado, presso altre sedi. Invece mantenendo la loro posizione (Capo di gabinetto o altri), cambiando semplicemente la targhetta posta sulla porta, si innesca un meccanismo vizioso e acquisizione di potere, accentrando nelle mani di pochi, il destino e le decisioni vitali di un Paese.
Non voglio lodarmi da solo, ma tutti quelli come me che hanno avuto la fortuna di intraprendere una carriera dirigenziale in un’Azienda importante, possono vantarsi di aver cambiato (per motivi legati alla progressione in carriera) otto città.
Otto traslochi, otto volte disagi per la famiglia, sradicare otto volte gli affetti dei figli verso amici o compagni di studi, otto volte rifarsi conoscenze e amicizie. Vorrei sapere se quei Capi di gabinetto conoscono tutti questi disagi, il nome di qualche impresa che effettua traslochi, ricordando loro che l’Italia è un Paese molto lungo, per cui, anche se da Trento a Palermo vi sono quasi 2.000 Km da percorrere, in occasione degli interpelli per l’accettazione della nuova sede, abbiamo sempre risposto “si, grazie, accetto con piacere e sono lusingato dell’incarico presso la nuova sede”.
Fermo la voglia irrefrenabile di continuare a scrivere su situazioni chiaramente inique e comunque risolvibili. In questo settore, il nostro Capo del Governo, avrebbe di che lavorare. Non mancando di segnalare tutta l’indignazione rappresentata dall’ex Cavaliere, contenuta nella dichiarazione fatta in occasione dello scandalo della capitale: “si devono dimettere tutti” . Tutti chi?

Rino Impronta

Pubblicata da Beppe Severgnini  nella sua rubrica Italians

mercoledì 19 dicembre 2012

Ricordo di un incontro straordinario.


Ho ritrovato alcuni appunti e una lettera scritta da Bückler ragazzo alla sua amata molti anni fa. La scrittura confusa e incerta le racconta un incontro: un incontro mai dimenticato.

"E' un giorno di novembre del 1975 e fa abbastanza freddo. I giornali non parlano d'altro che della morte di Pasolini. Malgrado la lontananza dalla mia città e dalla mia amata, Roma mi affascina. Ogni via, ogni angolo sono per me una scoperta ed arrivare fino a Trastevere in fondo non è stato difficile. Mai immaginando che sto per assistere a qualcosa di straordinario..."

Più tardi.
Si è fatta sera e come ogni giorno il solito rituale.
Ho promesso al mio amore di scriverle una lettera ogni giorno raccontandole la mia giornata e negli ultimi 2 mesi non ho mai  saltato un appuntamento.
Sul foglio bianco in alto a destra scrivo : Lettera N. 61 e inizio.....

Cara A.....  prima di tutto ti voglio bene, ma questo lo sai già.....
Oggi ho incontrato una persona speciale. Ricordi quel locale di cui ti avevo parlato? Il Folk Studio, a Trastevere?
Quello dove sembra abbia suonato anche Bob Dylan? Ricordi? Oggi pomeriggio ci sono andato.
Sapevo che in passato era stata una cantina, ma mi ha meravigliato l’angustia del locale.
Qualche gradino a scendere, un piccolo bar all’ingresso (sai, al bar ho intravisto Stefano Rosso, era lui ne sono certo) e sulla destra una tenda enorme.
Scostata, mi sono trovato in una piccola stanza con una trentina di sedie poste davanti a una pedana.
Tutto molto semplice e spartano.
Come ogni domenica lo spazio era dedicato a giovani promesse. Oggi ero tra i pochi spettatori (5-6 al massimo).
I  ragazzi che si sono esibiti erano molto bravi, ma  un giovane mi ha colpito. Un giovane che definire "straordinario" è dir poco.
Nonostante la malinconia che conosci e che mi accompagna lui è riuscito a farmi/farci star male dal ridere. Non avevo mai assistito a niente del genere. Non era proprio un comico, direi un artista della risata. Difficile raccontare quei momenti.
Era entrato un po’ impacciato, doveva anche suonare la chitarra e cantare un paio di sue canzoni, ma pensa, si era dimenticato lo strumento. Gliel'ha prestata il ragazzo che si è esibito prima di lui.
Sembrava impacciato, ma quando ha cominciato a parlare...
Ci ha fatto sbellicare dalle risate, non ricordo neppure con che argomenti, tanto stavo male.
Ha pure cantato due sue canzoni. Una era “la marcia degli incazzati”. Incazzato lo era di sicuro, visto che ha quasi distrutto la chitarra.
Poi un’altra canzone più dolce. Una canzone d’amore tra un uomo e una.....pensavo una donna, ma poi alla fine la sorpresa: era una mucca.
Ti giuro che stavo per morire. Alla fine l’ho fermato e mi sono complimentato con lui, augurandogli ogni bene.
Credo che ne sentiremo presto parlare e sono certo che diventerà un grande artista.
Al momento è un emerito sconosciuto, ma segnati questo nome: il ragazzo mi ha detto di chiamarsi Benigni Roberto. Diventerà un grande, me lo sento, gliel'ho detto.

P.S. Chissà se Benigni ricorda quel giorno. Di quel ragazzo senza chitarra e di quel giovane che tanto lo apprezzò.

giovedì 20 ottobre 2011

Pasolini e la violenza dei black bloc



Liberamente ispirata alla poesia che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1968 dopo gli scontri di Valle Giulia.

Voi stupidi black bloc, così vi chiamano per mitizzarvi, avete cancellato le ragioni vere e giuste dell’indignazione giovanile, siete i nipotini dei violenti degli anni Settanta che rovinarono le ragioni del ’68.
Avete facce di figli di papà sotto quei cappucci neri. Vi odio come odio coloro che usarono la violenza negli anni Settanta facendo disperdere quanto c’era di buono nel protagonismo giovanile di quel decennio. Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati, ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:prerogative piccolo-borghesi, cari.
Ma siete vigliacchi e nascondete il volto. Quando oggi a Piazza San Giovanni avete attaccato i poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti rischiano la loro vita a viso scoperto.
I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete aggredito,
appartengono all’altra classe sociale.
I ragazzi che sfilavano pacificamente chiedevano che il loro futuro non fosse cancellato ma voi eravate lì per altre ragioni.
Anche a San Giovanni, oggi, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi,mentre i poliziotti e gli indignati erano i poveri.
Oggi a Roma c’era un popolo colorato a viso scoperto che rivendicava il diritto al futuro.
E c’era la vostra marmaglia a viso coperto che a quel futuro non era interessata
e che cercava solo la violenza del passato. Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla violenza e non meritate altro che il disprezzo.
Perché tra voi e il potere non c’è ormai nessuna differenza e siete riusciti a fare ciò che il potere voleva: cancellare la ragioni della protesta e indignarci tutti.

GT (http://giovannitaurasi.wordpress.com)