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venerdì 31 agosto 2018

La stanchezza e le armi.


Sono stanca di politiche basate sul "vaffa" o sul “morte a.." sono stanca dello sdoganamento dell’uso di insulti, minacce, aggressività, pessima cultura, ignoranza nel parlare e nell’agire.

Sono stanca di razzismo, di odio, di stupri, di femminicidi.

Sono stanca di teoria ascientifiche, di decisioni di vita e scelte di salute che si possono ripercuotere sul Paese e non solo, anche oltre i suoi confini.

Sono stanca del clima di paura in cui viviamo, di un Paese incattivito, urlante e aggressivo, dell’ansia e dell’apprensione continua che toglie senso al futuro, perché spaventa e non ci si vuol pensare, perché si vede solo un baratro.

Ma sono ancor più stanca dell’uso ed abuso di "armi" deprecate nel nemico e poi usate altrettanto liberamente.

Da quando si vince diventando come il nemico?

Se uso le armi del nemico, se penso come il nemico, se agisco come il nemico, io sono il nemico.

Anche se perde...il nemico ha vinto.

Il fine non giustifica i mezzi. Mai. I mezzi sono il fine.

Dove, perché e quando si è deciso che la differenza era nulla, che le “armi” andavano bene, che la lotta era su altri piani?

No, non lo è. Non è la mia strada.

La vera lotta, la vera differenza è sul conservare una visione pulita, una mentalità razionale, un senso morale e un valore del rispetto contro chi di tutto questo manca.

Siamo ben oltre uno scontro politico. Siamo ad uno scontro di civiltà contro la barbarie, di Democrazia contro l’oscurantismo, di onore contro il disonore.

E tutto ciò va ben oltre i colori degli schieramenti politici. Non mi interessa da dove provenga e che fede professi chi, comunque, usa armi di un certo tipo.

Quello è il nemico.



Perché' l'odio è più facile da alimentare che l'amore?

Perché' tutti hanno dolori dentro. Profondi. Corrosivi. Perché' tutti hanno paure dentro. Profonde. Corrosive. Una belva accovacciata nel buio.

Ed è più facile dar da mangiare alla belva piuttosto che accettare che esista, piuttosto che lottare per sconfiggerla, combattendo contro sé stessi.

Questo è ciò che fanno con noi. Questo è ciò che facciamo con noi.

Come in cielo così in terra, come dentro così fuori. Danno da mangiare alla belva, ma la belva è in tutti noi. Siamo diventate persone immemori di sé stessi e della Storia, dei propri errori e di quelli della Società, bambini viziati che vogliono solo conferme e non sopportano contraddizioni e quindi incapaci di cambiare e migliorare sé stessi e la Vita.


Paure e dolori profondi: la belva.

Certo nutrita da chi sventola Vangeli ma non li applica, da chi crea un mondo fatto di parole e non di coerenza fatto di apparenza e di vuoti proclami. Ma un cibo che nutre tutti.

È necessario capire, definire, riconoscere chi e cosa è il nemico contro cui combattere.



È necessario trovare la nostra coerenza perché alla fine sono gli atti e le azioni che ci giudicano e su cui veniamo giudicati. E quelle rimangono.

È necessario guardarsi dentro e riconoscere quali armi si stanno usando.

Ritrovare o conservare la propria strada e non confondersi col nemico.

Riconoscere che la guerra ha varcato i confini, che come un virus può infettare se non si è vaccinati. E decidere quali armi usare e non diventare come il nemico. Costa, certo, ma questo costo è quello che ci definisce Umani.


Sono stanca di vedere, ma la stanchezza più grande è quella di Cassandra. Vedere e non essere creduti.

E l'uragano ormai si vede e già i venti forti soffiano sulla nostra pelle...

Se uso le armi del nemico, se penso come il nemico, se agisco come il nemico, io sono il nemico.

 Anche se perde...il nemico ha vinto.

 Il fine non giustifica i mezzi.

 Mai.


Stefania Conti   @stefaniaconti su Twitter

sabato 18 agosto 2018

C'è un tempo per tutto.


Quando, tanti anni fa, questa terra mi accolse mi ritrovai in un mondo diverso da quello che conoscevo. Genova, un nastro d’argento srotolato fra monti e mare. Un mare povero, una terra aspra. Tanto aspra che le “fasce” strappate ai monti sassosi sembravano arrivare al cielo e le pianure erano solo un sogno distante.

Terrazzamenti larghi qualche metro su cui piantare e coltivare con una pazienza lunga quanto le fila di sassi che trattengono le fasce. Un mare povero di pesce, con le acciughe d’argento, moscardini e calamari ma che “per pescar dell’altro devi andare molto, molto a largo”, perché neppure i fiumi hanno benedetto questa terra con il loro continuo apporto di sostanze nutritive, ma solo i torrenti sempre in secca o che si trasformano in mostri d’acqua.

E i Genovesi, famosi per la loro avarizia, che poi quando capisci veramente la vedi per ciò che è: forzata parsimonia atavica di chi è abituato a dar valore ad ogni piccola cosa. Valore ad ogni cosa. E, se una cosa ha valore in questa terra dura, è la dignità e l’orgoglio. Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire Ed a Genova, in un giorno d’Agosto, è arrivato in un attimo il tempo di morire.

Un ponte crolla e tu ci sei passato 1 minuto prima, oppure hai accelerato 1 minuto prima e hai visto sotto di te solo il vuoto. E, in un attimo tutto cambia. Le vite spezzate, i bambini che mai cresceranno, i fidanzati che mai si sposeranno, gli uomini e le donne che mai arriveranno a casa. E, in un attimo, tutto cambia. Il dolore di tante famiglie, lo shock di un evento incredibile e una città non solo sconvolta e disperata, ma spezzata in due. Quel nastro d’argento tagliato, e, all’improvviso, tutto posto ad una distanza più grande da tutto. C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare.

E troppi hanno detto troppo e lascio a loro l’onere di continuare, perché i tempi son stati sbagliati, perché nulla è stato rispettato. E’ questo che voglio ricordare: che era corretto, necessario e dovuto un comportamento diverso, azioni diverse, dichiarazioni diverse. Almeno dopo il fatto.  Che il silenzio, lo smarrimento, il dolore erano e sono atti dovuti e doverosi. Che tutto si è trasformato, forse in un tempo minore di quello che ha impiegato il ponte a crollare, in un grande carnevale mediatico in cui il rumore di fondo (e non quello della tragedia) aumentava esponenzialmente, come a cercare di zittire i fatti, cancellare le immagini, trasformare la realtà. Spostando in là il tempo in un domani in cui il lutto ed il silenzio e il dolore fossero già digeriti. Un tempo sbagliato.

C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere E’ questo che voglio ricordare: che la dignità e l’orgoglio di cui questa Città è piena e che le PERSONE, che un istante di tempo ha inghiottite, esigevano come diritto inalienabile di riceverne altrettanto e che tutti avevano il dovere di dimostrare a loro altrettanta dignità ed orgoglio. Nessuno si illude che, oggi, si possa evitare che le tragedie vengano strumentalizzate. Ma c’è un tempo per tutto. E questo tempo ai morti, a Genova ed all’Italia non è stato concesso. Ogni evento è stato proiettato in una bolla atemporale in cui le persone, i fatti, le lacrime ed il dolore hanno perso il loro senso ed il tempo di una giusta riflessione.

Una volontà forte di piegare il tessuto del tempo e dello spazio per portarlo, con dichiarazioni e proclami, ad un timing orrendamente sbagliato ma che tuttavia ha permesso di annullare la giusta, corretta e umana risposta emotiva degli Italiani al fine di trasformare immediatamente una tragedia in capitale politico da spendere velocemente ed al massimo. C’è un tempo per amare e un tempo per odiare E’ questo che voglio ricordare: che era solo il tempo di piangere, che era solo il tempo di amare. Che, seppur sembri che vince chi grida più forte, c’è il tempo del silenzio e del rispetto. Che l’Italia tutta doveva ai morti ed a Genova questo, almeno per qualche giorno.

Che tutta la classe politica, di ogni colore e schieramento lo doveva. Il tempo del lutto, il tempo del rispetto, il tempo del calore umano. Ci sarebbe comunque stato tempo, poi, anche per l’odio. Sarebbe arrivato, certo, ma non ora. Ed alla fine di tutto doveva (e dovrebbe esserci sempre) il tempo del pensiero e della riflessione. Guardiamoci come siamo e ciò che abbiamo fatto. Pensiamo a come abbiamo reagito e di cosa ci siamo preoccupati. Riflettiamo se questo è normale o se tutti noi siamo cambiati. Da dove proviene questo vuoto che ci portiamo dentro che deve essere immediatamente riempito da delle voci? E dove ci porterà se non lo riconosciamo?

Da dove nasce questa ansia di ricevere spiegazioni prefabbricate e provvedimenti istantanei, senza il tempo dovuto alla necessaria analisi rigorosa dei fatti? E dove ci porterà se non la riconosciamo? Da dove origina questa necessità di cancellare i tempi, persino quelli del rispetto che impone che le vittime di una tragedia non siano usate come mezzi propagandistici di una strumentalizzazione che non trova alcun rimprovero, ma siano persone da piangere e rispettare?

E dove ci porterà se non la riconosciamo? Scende un'altra sera ed ancora si vedono le luci cercano chi manca all'appello. La "maccaja" da 3 giorni Genova ce l'ha nel cuore. Incassiamo le spalle e "mugugnamo" che era corretto, necessario e dovuto un comportamento diverso, azioni diverse, dichiarazioni diverse. Almeno dopo il fatto.

C’è un tempo per tutto e il tempo giusto per questi morti e per Genova non è stato né trovato né donato.

Stefania Conti   @stefaniaconti su Twitter

La foto di Genova in bianco e nero è di Alberto Bruschi