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Al fine di mantenere il blog nell'ambito di un confronto civile e costruttivo, tutti i commenti agli articoli espressi dai lettori verranno preventivamente valutati ed eventualmente moderati. La Redazione.

giovedì 15 gennaio 2015

Noi ci abbiamo provato.


Caro Johannes,
oggi sul Corsera si legge che ”In Italia il numero di biglietti da 500 euro «è crollato», le banconote da 500 e 200 euro «sono sostanzialmente sparite» e quelle da 100 «si stanno riducendo». Lo ha detto il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, intervenendo dinanzi alla commissione Antimafia.
Inoltre è possibile leggere (sempre sul Corsera di oggi 15 gennaio) l’articolo dove di fatto i giudici della Corte di giustizia europea, dichiarano la compatibilità con i trattati europei, l’iniziativa del Presidente della BCE (Draghi). Lo stesso ha in animo la realizzazione del programma di salvare l’euro: il ben noto QE (Quantitative easing) acquisto massiccio di bond, debito sovrano incluso, che la stessa BCE ha dichiarato di voler realizzare ormai da mesi. Anche su questo argomento avevo sottoposto alla sua attenzione alcune mie riflessioni - riguardavano i pensionati e il sistema PMI (e poi da lei gentilmente pubblicate in data 26 e 31 gennaio 2012 ) - in linea con quelle che dovrebbero essere approvate in questi giorni.
Con riferimento alla prima notizia, (banconote da € 500) ricordo che lo avevamo affermato noi, nella nostra riflessione (pubblicata in data 15 maggio 2013). In pochi ci hanno creduto. Tant’è che abbiamo investito del problema la BCE (con una nota scritta inviata all'attenzione del Presidente della BCE in data 25 luglio 2013). Sensibile al problema, abbiamo ricevuto una risposta (in data 14 ottobre 2013) sull’argomento dal Direttore presso la Direzione Banconote della BCE, Dr. Ton Roos, con la quale si ribadisce che di fatto la BCE svolge un servizio per la collettività (europea) nel distribuire la banconota da € 500. Per questo motivo ritiene inopportuno ritirare ed eliminare dalla circolazione la predetta banconota. In effetti la nostra proposta riguardava una "sostituzione" e non una "eliminazione" di un taglio.
Comunque ritengo la risposta della BCE molto politica e poco tecnica. Peccato perché abbiamo perso altro tempo e nel frattempo l’evasione è aumentata notevolmente. Sull’argomento avevo richiamato anche l’attenzione di alcuni nomi importanti del giornalismo italiano (editorialisti ed esperti in economia del Corsera).
Purtroppo è rimasto tutto lettera morta. Ma noi Buckler siamo testardi e ritorniamo alla carica, riproponendo alla BCE l'operazione, non mancando di sottolineare che da qui in avanti, in Italia e in tutta Europa aumenterà la liquidità (vedi le decisioni della Svizzera, prime possibili conseguenze: interruzione della delocalizzazione di imprese italiane, per il notevole aumento dei costi di gestione). Quindi sarà molto più facile riciclare o trasferire in Paesi più tolleranti (appartenenti alla Black List) somme importanti, di personaggi o gruppi importanti, amici degli amici, poteri forti, intoccabili. Mi chiedo sempre quale rischio corriamo nel toccare e trattare questo argomento (Charlie Hebdo fa scuola). Però è necessario che qualcuno lo faccia.
Per porre la parola fine a questo fenomeno endemico del nostro Paese e di tanti altri, sarà dura, ma se si vuole affrontare a viso aperto i colossi dell’evasione e dell’elusione, gli strumenti ci sono, è solo questione di volontà.

Rino Impronta

La riflessione inviata alla BCE >>>>>                         La risposta della BCE >>>>>


martedì 13 gennaio 2015

Non si vota sul diritto di pregare.


Davide Ferrario su queste pagine ha scritto di essere favorevole a un referendum su una moschea a Bergamo, “purché se ne discuta”.
Sul “discutere”, come non essere d’accordo. Mi chiedo però se sia possibile farlo con chi continua a dichiarare che tutto l’Islam (per la cronaca 1,6 miliardi di persone) sia quella roba lì (riferita ai fatti di Parigi). Per carità, ci si può provare. Però la vedo dura dopo anni di inutili discussioni su meridionali, immigrati, rom, gay e quant’altro. Sull’idea del referendum invece la contrarietà è netta.
Su questo tema infatti la Costituzione è chiara. Per esempio all’art.2, che: “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Al 3 che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E poi l’art. 8: “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano”.
Il 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata” e per finire il 20 : “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative”. Credo che ce ne sia a sufficienza per poter dichiarare che non è ammissibile un referendum su una materia di così evidente profilo costituzionale.
Veniamo invece alle obiezioni e in particolare quando si dice: “i comandanti dei killer di Parigi avevano frequentato la Moschea di Milano”. Credo che questa dichiarazione si commenti da sola. Se oggi sappiamo questo, se siamo a conoscenza di quegli incontri, è proprio perché frequentavano una moschea. Fossero avvenuti in qualche scantinato ora saremmo all’oscuro di tutto.
E proprio noi bergamaschi dovremmo saperlo bene. Abbiamo infatti scoperto che è passato dalle nostre parti tale Bilal Bosnic, predicatore bosniaco salafita e jihadista, ospitato da un gruppo di fedeli di Bergamo che si riuniva in una sala della Celadina (a dimostrazione che non è certo la mancanza di un luogo di culto a fermare gli estremisti). Insieme a loro lo stesso Bosnic aveva raggiunto per un lungo sermone, la moschea di Motta Baluffi, gestita dal gruppo di bergamo insieme a quello di Cremona.
E’ indubbio che l’eventuale costruzione dovrà rispondere alla disciplina della legge regionale n. 12/11 marzo 2005 per il governo del territorio e principalmente alle “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate ai servizi religiosi”.
Si dovrà pretendere la tracciabilità finanziaria del progetto, una trasparenza dell’eventuale organizzazione e la presenza di celebranti che parlino italiano.
Prendiamo atto che è sempre meglio “regolarizzare” che lasciare le cose come stanno.
Nel frattempo possiamo fare anche un piccolo esame di coscienza, cercando di capire se abbiamo qualche responsabilità per il caos generato in alcuni Paesi che oggi ci costringono ad affrontare certi problemi.
Potremmo giungere alla conclusione che prima di pensare d’esportare la nostra democrazia (che dopo 2000 anni risulta ancora imperfetta) forse è il caso di lavorarci su ancora un po’.

Johannes Bückler

13 Gennaio 2015 - Corriere della Sera - Bergamo - Leggi >>>>>

giovedì 8 gennaio 2015

La forza può prevalere sul diritto?


Il vile attacco al giornale Charlie Hebdo. L’orrenda strage di giornalisti, di lavoratori dell’informazione. Niente di più terribile, orribile, spaventoso. Ma tanta, troppa ipocrisia. 

23 Aprile 2009

Ksenija Bankovic aveva 28 anni quel 23 aprile del 1999 e svolgeva con grande passione il suo lavoro di assistente al montaggio. Anche Jelika Munitlak aveva 28 anni ed era molto soddisfatta del suo lavoro di truccatrice. Sono passati dieci anni, ma Ksenija e Jelika hanno ancora 28 anni.

21 Aprile 1999 

RTS è la televisione nazionale serba a Belgrado. Il palazzo ospita uffici, radio, Tv e si trova in mezzo al Parco della Pace dove il Sava s'incontra con il Danubio. Nel palazzo hanno sede uffici stampa del Sps, della Pink-Tv e poi uffici import-export, agenzie immobiliari e turistiche, banche, un day hospital per malattie reumatiche e un ristorante all'ultimo piano.

Il pomeriggio è iniziato con le sirene dell'allarme aereo. Di giorno non era mai successo: dicono che hanno bombardato il ponte sulla nuova circonvallazione.
Davanti al palazzo un cartello scritto a mano: ”OBIETTIVO MILITARE”. Nessuno ci fa caso. In fondo, si sa,  i giornalisti sono sacri. A chi verrebbe in testa di mandare un missile su una Tv che trasmette “Casablanca”.

RTS è una Tv mal sopportata dalla Nato.
Quando la NATO ha negato che un loro aereo da guerra Stealth era stato abbattuto, RTS aveva trasmesso il video del relitto. Quando la NATO ha detto che lo stadio di Pristina era stato utilizzato come un campo di concentramento, RTS aveva mostrato lo stadio vuoto.
Mentre la NATO affermava che il leader albanese, Ibrahim Rugova era a favore della loro campagna di bombardamenti, RTS mandava in onda l’intervista in cui il leader condannava quei bombardamenti.
Quando il 16 aprile la NATO aveva mostrato al mondo intero una fotografia satellitare come "prova" che i serbi avevano massacrato etnici albanesi, e li avevano seppelliti in una fossa comune a Izbica, RTS si era recata sul posto, nel piccolo villaggio albanese di Izbica, e aveva intervistato gli abitanti. Non trovando nessun massacro e nessuna fossa comune.
Confrontando poi riprese video della terra con la presunta fotografia satellitare della NATO aveva dimostrato che non esistevano edifici dove la NATO li indicava sulla fotografia. Inoltre RTS aveva mostrato un convoglio di profughi albanesi sulla strada Prizren-Djakovica, dove il 14 aprile almeno 75 persone erano state uccise dai bombardamenti; 100 i feriti, per lo più donne, bambini e anziani.

22 Aprile 1999 

Il ministro dell'Informazione serbo Aleksander Vucic ha ricevuto un invito via fax dal "Live Larry King Show" a comparire sulla CNN. Lo vogliono in onda alle 2:30 del mattino del 23 aprile e hanno chiesto al serbo di arrivare in televisione mezz'ora prima per il make-up. Vucic non ce l’ha fatta ad arrivare in tempo. La CNN dovrà rimandare l’intervista.

La CNN dichiarerà che fu solo una coincidenza. Disse che lo show “Larry King” era stato messo in onda dalla divisione intrattenimento che non era certo a conoscenza di quello che stava per accadere.

23 Aprile 1999 - ore 02.06 

E’ notte. RTS sta trasmettendo una intervista a Milosevic. Al suo fianco un professore americano, tale Ron Hatchet in una rara intervista rilasciata in esclusiva per conto di una quasi sconosciuta stazione televisiva di Huston, nel Texas.

Tremano e s'incrinano le finestre e il tetto del grattacielo è in fiamme. Un missile è entrato al primo piano, terza finestra da sinistra. E’ esploso nella sala trucco, dove una giovane assistente è bruciata viva. Un altro è entrato all’ultimo piano, sesta finestra da destra. Il terzo al decimo. Scoppiano i vetri e dalle finestre esce di tutto, il trifoglio del Parco della Pace si riempie di schegge di ferro, pezzi di sedia, un telefono resta su un pino, tabulati del day hospital ovunque.

“Possibile che non ci fosse nessuno nel grattacielo, illuminato fino a un attimo prima?” «Sono rimaste dentro almeno quindici persone, credo giornalisti» grida uno. Il ministro Goran Matic arriva davanti al grattacielo per una conferenza stampa.
«E' così difficile, per la Nato, tollerare la libertà d informazione?». La tv serba trasmette in diretta dal grattacielo e intervista una donna che continua a urlare. «Chissà quando riprenderò le trasmissioni», si lamenta Nemecjk

Il ministro italiano degli Esteri, l'on. Dini, da Washington, dove si è riunito il Summit dell'Alleanza per celebrare i 50 anni della Nato, dichiara ai giornalisti italiani: «è terribile, disapprovo, non credo che fosse neppure nei piani».


Immediatamente sconfessato dal suo Presidente del Consiglio, l'on. Massimo D'Alema, che dichiara: «Non si può commentare ogni giorno dove è caduta una bomba». Sintetizzato dai giornali: “Non si può discutere ogni bersaglio”.





Durante il bombardamento nel palazzo c’erano circa 200 persone. I morti della Tv RTS furono 16. Questi i loro nomi:

• Aleksandar Deletić (30), cameraman
• Branislav Jovanović (50), tecnico
• Darko Stoimenovski (25), tecnico
• Dejan Marković (39), addetto alla sicurezza
• Dragan Tasić (29), elettricista
• Dragorad Dragojević (27), addetto alla sicurezza
• Ivan Stukalo (33), tecnico
• Jelica Munitlak (28), truccatrice
• Ksenija Banković (28), addetto al mixer
• Milan Joksimović (47), addetto alla sicurezza
• Milovan Janković (59), macchinista
• Nebojša Stojanović (26), regista
• Siniša Medić (32), scenografo
• Slaviša Stevanović (32), tecnico
• Slobodan Jontić (54), regista
• Tomislav Mitrović (61), direttore del programma

12 dicembre 2001

I genitori di Ksenija Bankovic ed altri parenti delle vittime della strage alla RTS hanno proposto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Spagna, Turchia e Regno Unito per violazione degli articoli 2 (diritto alla vita), 10 (diritto alla libertà di espressione) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Oggi la Corte ha emesso la sentenza dichiarando il ricorso “irricevibile”.

La Corte, in sostanza, trovandosi innanzi a qualcosa di assolutamente inusitato nella pratica giurisprudenziale, operò una sorta di “astensione” delle sue competenze. Stabilì che gli Stati membri della Convenzione non possono essere giudicati per le azioni extraterritoriali (salvo che non acquisiscano di fatto il controllo del territorio al di fuori della loro giurisdizione). In quel caso la Corte ritenne che gli Stati chiamati in giudizio non avessero il controllo di fatto dell’area di Belgrado dove si è verificata la strage.

La Nato dichiarò che il numero delle vittime non era “sproporzionato” rispetto all’obiettivo.

Dieci anni dopo - 23 aprile 2009 

Ksenija Bankovic aveva 28 anni il 23 aprile del 1999 e svolgeva con grande passione il suo lavoro di assistente al montaggio. Anche Jelika Munitlak aveva 28 anni ed era molto soddisfatta del suo lavoro di truccatrice.

Sono passati dieci anni, ma Ksenija e Jelika hanno ancora 28 anni.

Erano nate lo stesso giorno, il 16 giugno 1971. Ksenija aveva frequentato il liceo a Belgrado. Al termine della scuola aveva cercato di iscriversi alla Facoltà di Arti Drammatiche, sezione assemblaggio. Dato l’amore per il cinema aveva cominciato a lavorare come mixer video in una Tv privata, poi dal settembre 1994 era entrata in RTS. Aveva intenzione di sposarsi e mettere su famiglia. Dal 1 maggio 1999 è sepolta nel nuovo cimitero di Belgrado.

Jelika, nata anche lei a Belgrado, è sepolta accanto alla sorella, morta dieci anni prima.

Sono morte alle ore 2,06 del 23 aprile 1999, assieme ad altre quattordici persone, come loro al lavoro presso gli studi della Rts (Radio Televisione Serba) di Belgrado. Un missile «intelligente» della NATO aveva deciso di colpire (e c'era riuscito), centrando con precisione millimetrica l'ala centrale dell'edificio della televisione dove ferveva il lavoro dell'equipe tecnica.

Quel bombardamento rese nullo un diritto. Si stabilì che il diritto alla vita dei giornalisti (e di tutti coloro che lavorano nel mondo dei media) dipende dal grado di libertà di stampa esistente in un determinato contesto. Quando la televisione costituisce uno strumento di propaganda di un regime politico autoritario, o comunque da fastidio a chi conduce un conflitto, allora può essere silenziata con la "giusta dose di bombe".

L'esempio della Rts fece scuola. Così dopo la TV di Belgrado, una "giusta dose di bombe" fu rovesciata, nel corso della guerra dell’Afganistan, sulla sede della TV Al Jazeera che trasmetteva da Kabul.

In Iraq, il giorno prima della capitolazione di Baghdad, fu distrutto il terrazzo da cui trasmetteva la Tv Al Jazeera, uccidendone l'inviato così come fu distrutto l’ufficio di Abu Dhabi TV e bombardato l'Hotel Palestine, uccidendo altri due giornalisti.

In seguito molti altri operatori dell’informazione hanno pagato con la vita l’ostinazione di voler continuare a informare.

Il conflitto tra guerra ed informazione, esploso così drammaticamente il 23 aprile 1999, è lo specchio di un altro fenomeno, non meno importante: quello fra guerra e diritto. La domanda è: "La forza può prevalere sul diritto?"

Le parole del diritto sono certo silenziose, debolissime, ma devono diventare forti, imperiose. E dovrebbe essere compito anche e sopratutto  dell’informazione.


Il vile attacco al giornale Charlie Hebdo. L’orrenda strage di giornalisti, di lavoratori dell’informazione. Niente di più terribile, orribile, spaventoso. Ma tanta, troppa ipocrisia. 

 Johannes Bückler

P.S. Questo video, al quale è stata aggiunta solo un'immagine, in realtà è un file audio originale registrato a Belgrado proprio in quei giorni durante i bombardamenti.





mercoledì 7 gennaio 2015

Le imprese, le tasse e quell'appoggio che non c'è.


Galeotta fu la norma.
L’articolo 19/bis della legge delega sul fisco ha scatenato talmente tante reazioni da costringere il Governo a rimandare l'invio del testo alla Camera. L’esclusione della punibilità “quando l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato”, è stato visto come un salvacondotto per un noto personaggio politico. Tralasciamo il risvolto grottesco di una legge ritirata perché ritenuta “ad personam” dimenticando che in questo modo la si fa diventare “contra personam”, che certo meno grave non è.
Entrando nel merito ritengo che sarebbe un errore collegare comportamenti fraudolenti (ad esempio fatture per operazioni inesistenti) a percentuali sull'imponibile. Domani che facciamo? Ragguagliamo la punibilità di un furto al reddito della vittima? Via, siamo seri. Usiamola eventualmente per attenuanti o aggravanti, ma non per la punibilità o meno. Detto questo, l’ennesima “leggina” desta una preoccupazione ancora maggiore.
Una preoccupazione che ci porta ad affermare che forse è giunto il momento di fermarsi e di riflettere se sia giusto o meno continuare in questo modo. Non è possibile continuare a fare sempre nuove leggi e norme che non fanno altro che mandare tutti in confusione. Abbiamo bisogno tutti di un po’ di respiro. Per questo approfitto per fare una richiesta al nostro Presidente del Consiglio: il 13 ottobre, dal palco dell’assemblea di Confindustria a Nembro, aveva definito Bergamo come “una terra modello”.
Con la dichiarazione: «Ho deciso di venire qui, davanti a voi, a illustrare quanto stiamo facendo perché la realtà bergamasca è una realtà eccezionale…» aveva reso il giusto omaggio a una terra che produce, che prova sempre a correre, che anche quando fa fatica non si lascia mai sopraffare. Centinaia di aziende bergamasche, malgrado la congiuntura economica negativa, hanno avuto e hanno la capacità di crescere, aumentare vendite e fatturati.
E allora perché non cercare di aiutarli? Perché non cercare di dare una mano a tutti quelli che in questo Paese hanno cancellato dal loro vocabolario la parola “arrendersi”? (E sono tanti) Prima di crescita, lavoro o quant’altro tutta questa gente di una cosa ha assolutamente bisogno: di certezze. Imprese, ma anche contribuenti e cittadini tutti. Dobbiamo sapere che un comportamento sbagliato oggi, lo sarà anche nei prossimi mesi.
Che una norma approvata oggi non cambierà a ogni piè sospinto. Che una tassa, così com’è formulata ora, avrà in futuro, se non lo stesso importo, almeno lo stesso nome, accidenti. Non è possibile continuare a scrivere nuove norme, leggi, regolamenti o modificare quelle esistenti aggiungendo o eliminando centinaia di commi ogni volta.
Si prenda atto che il problema principale di questo Paese non sono le leggi o le norme in quanto tali (che già esistono e sono tante), ma semmai la loro applicazione.
Fermiamoci un attimo. Fateci respirare. Ma se proprio non potete farne a meno fatelo, ma seguendo il consiglio di un grande magistrato: “raramente e con mani tremanti”.

Johannes Bückler

07 Gennaio 2015 - Corriere della Sera - Bergamo - Leggi >>>>>

martedì 6 gennaio 2015

Il futuro dell'azienda-Italia è da «capitalismo straccione»


Napoleone Colajanni, presidente della Commissione Bilancio del Senato che per circa due anni ha indagato sulla crisi finanziaria della grande industria italiana, ha anticipato, rispetto al «libro bianco» di imminente pubblicazione, alcuni dati sui quali le
forze politiche in questo scorcio di campagna elettorale dovrebbero attentamente meditare.
L'occasione, al parlamentare comunista, l'ha offerta lo studio dell'Istituto Bancario San Paolo di Torino presentato nei giorni scorsi a Bologna sulla «struttura finanziaria delle medie imprese. L'accurata radiografia del San Paolo, effettuata su un campione assai rappresentativo di 871 società per azioni, ha dato conferma di una serie di elementi da tempo intuiti.

Nel nostro Paese, al crescere della dimensione, l'impresa nella combinazione dei fattori produttivi è costretta a impiegare quantità sempre maggiori di capitale, senza ricavarne beneficio alcuno dal lato della redditività. Soffocata da rigidità crescenti, mortificata da norme amministrative, centro di conflittualità permanente, sovente oggetto di fameliche «attenzioni» politiche, sopravvive grazie all'indebitamento, allontanandosi sempre dal modello originario «profit-oriented» per divenire centro di un modello assistenziale i cui costi enormi entrano alla fine a far parte del mostruoso inventario che è divenuto il debito nazionale. Colajanni, utilizzando evidentemente alcune stime ricavate dall'indagine senatoriale, ha detto che 25 grandi imprese italiane hanno accumulato 9844 miliardi di debiti a breve termine e oltre 12 mila miliardi di debiti a medio lungo termine.

Un indebitamento verso gli intermediari finanziari che solo per queste aziende è di circa 22 mila miliardi, a fronte del quale il conto attivo patrimoniale dell'intero sistema bancario italiano è di appena 6600 miliardi. Anche accettando che le aziende di credito possono, previa autorizzazione della Banca d'Italia, superare negli impieghi di una volta e mezzo o anche due volte il capitale proprio, vuol dire che ogni limite è divenuto inoperante e che la patologia ha finito per far premio su ogni più elementare regola di comportamento. Con quali conseguenze?

La caduta tendenziale del saggio di profitto, la diminuita propensione all'assunzione di rischi imprenditoriali, l'annullarsi dei margini di autofinanziamento, la distruzione del mercato azionario, la sottocapitalizzazione delle banche, hanno assunto insieme ad altri fenomeni proporzioni tali da far pensare, almeno secondo il pensiero espresso dal senatore comunista, di essere in Italia ormai alla fine del capitalismo. Una conclusione personale e da accogliere con il beneficio di inventario derivante dall'estrazione ideologica del parlamentare del Pci.

Un fatto, comunque, è certo: una classificazione dell'economia italiana appare alquanto difficile. Capitalismo, forse, non lo è più da tempo. Socialismo non lo è almeno finora, anche se per Colajanni la capacità di organizzare i fattori di produzione (come?) non è caratteristica solo del capitalismo. Tentare di stabilire allora cos'è, costituisce impresa ardua. Per il momento appare come un groviglio di pubblico e di privato, di assistenzialismo esagerato, di tentativi di mediazione alquanto discutibili nei loro effetti economici.

Il salvataggio della Sir, voluto a tutti i costi dal governo, è il premio, così come si va risolvendo, per chi si è indebitato e per chi ha permesso quell'indebitamento senza preoccuparsi troppo del gravame che ora si intende scaricare sulla collettività. Il segno tra i più evidenti di un sistema che almeno dal lato delle grandi imprese significa la rinuncia, in molti casi, a perseguire ogni tentativo di accumulazione. Dal lato del sistema creditizio, l'assoluzione per aver accettato operazioni bancariamente «non esemplari».

Qualcuno ha fatto osservare al senatore Colajanni che, a questo punto, non ci sono altri modi di operare. Probabilmente ha ragione. In tal caso, però, lo sviluppo che ci aspetta è quello di un capitalismo straccione.

Natale Gillo - (La Stampa - 21 maggio 1979)

venerdì 2 gennaio 2015

Quando tutti fanno i furbi.


« Tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato »: questo è un modo di pensare sempre più diffuso tra noi italiani e qui è la causa che più di ogni altra contribuisce a tenerci impiastricciati nel vischio della lunga crisi economica.
Evidentemente, se ci ostineremo a pensare in questo modo, i nostri guai non potranno che aumentare. Risalire nel tempo e indagare quando e perché cominciammo a vedere lo Stato come una specie di pozzo di San Patrizio, ci svierebbe lontano e in definitiva non servirebbe granché. Molto più salutare sarebbe invece persuadere gli italiani che cosi non si può andare avanti.
Ed essi cominceranno a rendersene conto solo il giorno in cui gli si farà constatare che l'immaginario pozzo senza fine è in realtà un modesto barilotto, e che ormai si sta grattando quel poco che resta sul fondo di esso. Però il governo si astiene dal farlo, sebbene ne sia sollecitato continuamente da più parti. Una delle conseguenze, diciamo la più perniciosa, è l'illusione che così si potrà andare avanti all'infinito, sempre all'insegna di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato ». Facciamo qualche esempio. Aumenta il numero dei giovani che non riescono a trovare una prima occupazione, aumenta il numero degli anziani espulsi dal lavoro, diminuisce l'occupazione femminile. Viceversa continua a gonfiarsi il numero delle persone che riescono a conquistarsi un posto nella pubblica amministrazione.
Solo nel 1971 i nuovi assunti furono 140 mila, di cui 46 mila dallo Stato, 34 mila da aziende autonome, 45 mila da enti locali e 15 mila da enti di diritto pubblico. Ormai siamo vicini al grande traguardo di due milioni di dipendenti pubblici, con un fortissimo distacco rispetto a tutti i Paesi del Mercato Comune: nel settore dei servizi o terziario gli occupati presso pubbliche amministrazioni in Italia sono il 27 per cento, nella Germania il 19, nel Belgio il 14, nella Francia 11.

Per molti aspetti è una massa impiegatizia che suscita il ricordo dell'esercito che era al soldo dell'ultimo re borbonico, il mite e indeciso Franceschiello: un esercito mal pagato, con capi spesso incapaci e corrompibili, con truppe propense — per dirla con espressioni ora di moda — alla disaffezione e all'assenteismo; e dunque un esercito per modo di dire, sempre incline a sbracarsi e a sbandarsi. Poco lavoro, tirare a campare tra « ponti» e scioperi, un continuo mugugno anche quando uno riesce quatto quatto a farsi una posizione invidiabile: che nome vogliamo dare a uno Stato così, uno Stato che la progressiva elefantiasi rende incapace di riformarsi e di riformare le strutture della società anche quando siano palesemente storte e ingiuste, antiquate e paralizzanti.

Vogliamo parlare di Stato assistenziale? Oppure di un neosocialismo all'italiana? O addirittura di riaffioranti vocazioni borboniche e levantine? Fate come più vi piace; la sostanza non cambia. Se ora usciamo fuori dai pubblici uffici, la stessa mentalità di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato » incontriamo un po' dappertutto. Per esempio, tra i titolari di imprese grandi o medie s'infittisce la schiera di coloro che trafficano por farsi comprare l'azienda dalla mano pubblica.

La tattica e semplice: da una parte essi esasperano le tensioni tra gli operai, dall'altra vanno nei ministeri e — conti alla mano — dimostrano di essere costretti a chiudere la loro impresa e a mettere sul lastrico centinaia di lavoratori. Sindacati e partiti entrano in ebollizione, e spesso «l'affare » va in porto con soddisfazione generale: dell'imprenditore che ha incassato una grossa somma e si è tolto dalla mischia, e parimenti dei lavoratori che ormai sanno di avere un padrone molle, di solito un amministratore designato da qualche partito e amante soprattutto del quieto vivere. Sono questi i frutti della qualità di cui noi italiani vili ci vantiamo, la furberia.

Però se ci mettiamo tutti a fare i furbi, allora andrà a finire come a quella squadra di soldati di colore, subito dopo la guerra, Ernesto Rossi osservò mentre trasportavano tubi metallici nel porto di Livorno. Per faticare meno degli altri, il primo della fila piegava un po' la spalla; quello che stava dietro lo imitava, e così faceva il terzo della fila, poi il quarto, il quinto...
Quando l'ultimo della squadra si era curvato anche lui, tutti venivano a trovarsi nelle stesse condizioni iniziali, e allora il primo si curvava un altro po', il secondo faceva lo stesso, e così il terzo, il quarto, il quinto...

A un certo punto, diceva Ernesto Rossi, a furia di abbassarsi per voler essere ciascuno più furbo degli altri, i soldati quasi strisciavano per terra, quasi contorcendosi come un millepiedi: e naturalmente in una posizione così scomoda faticavano il doppio, il triplo, chissà quanto di più che se avessero trasportato i tubi metallici stando diritti e ognuno facendo con semplicità il suo dovere.
Ci ridurremo così anche noi italiani se continuerà ad aumentare la voglia o la necessità di intrufolarci nella pubblica amministrazione, individui singoli e aziende intere, e se cercheremo — furbi come siamo — di lavorare sempre meno con settimane cortissime e con « ponti » che si rincorrono veloci attraverso festività, scioperi e ferie?

Direi che è inevitabile: a un certo momento saremo tutti più o meno pubblici dipendenti, avremo bensì i più vantaggiosi contratti di lavoro del mondo, magari saremo anche pregati di non recarci al posto di lavoro per mancanza di spazio; però togliamoci dalla mente di potere avere nello stesso tempo buste paga con un peso reale consistente.

Verosimilmente dentro le buste ci saranno tanti, tantissimi milioni, forse anche miliardi, ma con tutta quella carta straccia sarà già molto se riusciremo a sfamarci ogni giorno, tutti i giorni dell'anno.
E solo allora, quando saremo pieni di ozio e di squallore davanti al muro della realtà, potremo infine calcolare i costi esosi delle nostre furberie e convincerci che erano in malafede o ignorami o pazzi, pazzi da legare, coloro che ci davano a intendere che lo Stato fosse un forziere inesauribile, in tutto e per tutti un gran bel pozzo di San Patrizio.

Nicola Adelfi  (La Stampa - 24 Dicembre 1972)

P.S. Questo scriveva nel 1972. Come tutti, quando denunciavano sprechi e quant'altro rimase inascoltato. Pochi mesi dopo il Governo Rumor approvò il testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, che consentiva le baby pensioni nell'impiego pubblico: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli enti locali. Nessuno protestò. 

Nicola Adelfi  pseudonimo di Nicola De Feo. Giornalista italiano (Modugno 1909 - Roma 1987), fratello di Sandro.Viaggiò come inviato speciale di quotidiani e di settimanali (L'Europeo, L'Espresso, Epoca, ecc.), e curò varie rubriche radiofoniche e televisive. Redattore per molti anni de La Stampa, si occupò di politica e specialmente di costume, dei cui mutamenti, quali indici della trasformazione della società contemporanea, è stato acuto indagatore e perspicuo, quanto appassionato, commentatore. Nicola era un giornalista gentiluomo. La biografia di Nicola Adelfi è la testimonianza senza ombre di un impegno intellettuale e umano che non è mai venuto meno durante tutta la sua vita.