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martedì 6 gennaio 2015

Il futuro dell'azienda-Italia è da «capitalismo straccione»


Napoleone Colajanni, presidente della Commissione Bilancio del Senato che per circa due anni ha indagato sulla crisi finanziaria della grande industria italiana, ha anticipato, rispetto al «libro bianco» di imminente pubblicazione, alcuni dati sui quali le
forze politiche in questo scorcio di campagna elettorale dovrebbero attentamente meditare.
L'occasione, al parlamentare comunista, l'ha offerta lo studio dell'Istituto Bancario San Paolo di Torino presentato nei giorni scorsi a Bologna sulla «struttura finanziaria delle medie imprese. L'accurata radiografia del San Paolo, effettuata su un campione assai rappresentativo di 871 società per azioni, ha dato conferma di una serie di elementi da tempo intuiti.

Nel nostro Paese, al crescere della dimensione, l'impresa nella combinazione dei fattori produttivi è costretta a impiegare quantità sempre maggiori di capitale, senza ricavarne beneficio alcuno dal lato della redditività. Soffocata da rigidità crescenti, mortificata da norme amministrative, centro di conflittualità permanente, sovente oggetto di fameliche «attenzioni» politiche, sopravvive grazie all'indebitamento, allontanandosi sempre dal modello originario «profit-oriented» per divenire centro di un modello assistenziale i cui costi enormi entrano alla fine a far parte del mostruoso inventario che è divenuto il debito nazionale. Colajanni, utilizzando evidentemente alcune stime ricavate dall'indagine senatoriale, ha detto che 25 grandi imprese italiane hanno accumulato 9844 miliardi di debiti a breve termine e oltre 12 mila miliardi di debiti a medio lungo termine.

Un indebitamento verso gli intermediari finanziari che solo per queste aziende è di circa 22 mila miliardi, a fronte del quale il conto attivo patrimoniale dell'intero sistema bancario italiano è di appena 6600 miliardi. Anche accettando che le aziende di credito possono, previa autorizzazione della Banca d'Italia, superare negli impieghi di una volta e mezzo o anche due volte il capitale proprio, vuol dire che ogni limite è divenuto inoperante e che la patologia ha finito per far premio su ogni più elementare regola di comportamento. Con quali conseguenze?

La caduta tendenziale del saggio di profitto, la diminuita propensione all'assunzione di rischi imprenditoriali, l'annullarsi dei margini di autofinanziamento, la distruzione del mercato azionario, la sottocapitalizzazione delle banche, hanno assunto insieme ad altri fenomeni proporzioni tali da far pensare, almeno secondo il pensiero espresso dal senatore comunista, di essere in Italia ormai alla fine del capitalismo. Una conclusione personale e da accogliere con il beneficio di inventario derivante dall'estrazione ideologica del parlamentare del Pci.

Un fatto, comunque, è certo: una classificazione dell'economia italiana appare alquanto difficile. Capitalismo, forse, non lo è più da tempo. Socialismo non lo è almeno finora, anche se per Colajanni la capacità di organizzare i fattori di produzione (come?) non è caratteristica solo del capitalismo. Tentare di stabilire allora cos'è, costituisce impresa ardua. Per il momento appare come un groviglio di pubblico e di privato, di assistenzialismo esagerato, di tentativi di mediazione alquanto discutibili nei loro effetti economici.

Il salvataggio della Sir, voluto a tutti i costi dal governo, è il premio, così come si va risolvendo, per chi si è indebitato e per chi ha permesso quell'indebitamento senza preoccuparsi troppo del gravame che ora si intende scaricare sulla collettività. Il segno tra i più evidenti di un sistema che almeno dal lato delle grandi imprese significa la rinuncia, in molti casi, a perseguire ogni tentativo di accumulazione. Dal lato del sistema creditizio, l'assoluzione per aver accettato operazioni bancariamente «non esemplari».

Qualcuno ha fatto osservare al senatore Colajanni che, a questo punto, non ci sono altri modi di operare. Probabilmente ha ragione. In tal caso, però, lo sviluppo che ci aspetta è quello di un capitalismo straccione.

Natale Gillo - (La Stampa - 21 maggio 1979)

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