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giovedì 29 ottobre 2015

Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.


Quando ho letto le dichiarazioni di Cantone “Milano torna a essere capitale morale, Roma non ha gli anticorpi” e le successive discussioni, mi sono ricordato di un vecchio articolo del grande Francesco Rosso e soprattutto di un vecchio slogan di Arrigo Benedetti : «Capitale corrotta, paese infetto».

Questo l’articolo apparso su La Stampa il 3 maggio 1981.

Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.
C'è una canzone su Roma, i cui versi essenziali dicono: "Roma capoccia-der monno infame". La capitale nostra, quindi, dovrebbe essere l'emblema dell'infamia universale, a giudizio del cantautore di cui non ricordo il nome. Poi la situazione si ribalta bellamente, all'italiana; il monno infame, di cui alla canzone, non è l'universo, e nemmeno il limitato mondo romanesco, ma l'Italia, evidentemente.
A meno che vogliamo rivendicare i diritti sull'impero di quell'altra Roma, per cui ci spetterebbero i danni di guerra da mezzomondo, Libia compresa, che invece li pretende da noi. No, il monno infame si riferisce proprio all'Italia, esclusivamente, il paese di cui Roma è la capitale autentica, nel senso che ci rappresenta compiutamente.
Quante volte ci accade di pronunciare vituperi contro Roma considerandola generatrice di ogni nostro malanno, di grida contro Garibaldi e Vittorio Emanuele II perché hanno voluto togliere al Papato la sua sede naturale e farne la capitale d'Italia. Ovunque sarebbe stato meglio, a Torino che fu la sede primigenia dell'Italia unita; Firenze, che fu la seconda; Milano che continua ad essere (ma lo è ancora?) la capitale morale; ma non Roma, città corruttrice di ogni valore, sentina di bassezze, tradimenti, eccetera.
Anni addietro, per indicare il malcostume politico nostrano, un giornalista-scrittore di buona fama, Arrigo Benedetti, lanciò uno slogan che ebbe fortuna: «Capitale corrotta, paese infetto». Era una diagnosi quasi esatta, ma soltanto quasi, nel senso che doveva essere rovesciata. Sarebbe stato più esatto scrivere: «Paese infetto, capitale corrotta». Perché è facile addossare a Roma tutte le infamità ma solo se facciamo astrazione da un fatto incontestabile; la Roma che conta, che ci governa e guida, non è fatta di romani de Roma, ma da italiani de Italia, ognuno con le sue qualità e difetti (purtroppo più numerosi i secondi). La Roma di cui sempre si parla è espressa da un parlamento, da un governo, da capigabinetto, funzionari, capoccioni della finanza palese e occulta, da portaborse, mestatori, traffichini facilmente identificabili dalla pronuncia; è un'Italia che va «dall'Alpi al Lilibeo» concentrata nello spazio non più esiguo della Caput Mundi, insediata fra i ruderi dei Fori Imperiali l'Ara Pacis, il Colosseo, la Colonna Traiano, la piramide di Caio Cestio, gli Acquedotti e le Tombe dell'Appio Antica.
A grattare anche poco, vien fuori una Roma che di romano ha conservato soltanto i ruderi imperiali ed una certa parlata rabbiosa di Trastevere; il resto ha cadenze meneghine, venete, sicule, calabre, apule, campane, etnische, gianduiotte, con il resto che è facile identificare. Roma, quella che conta e comanda, è fatta da italiani che noi, votando, mandiamo a rappresentarci nella capitale, e costoro, grazie al nostro mandato, scelgono i loro collaboratori, che a loro volta scelgono gli amici, poi gli amici degli amici; e avanti di questo passo.
Roma, quindi, riflette noi come uno specchio, ed il monno infame di cui è capoccia, è composto da noi tutti, cittadini del Bel Paese. Mi pare una distinzione che doveva essere fatta, non per rivalutare e difendere Roma, che non ha bisogno, ma per stabilire alcuni principi da cui si può partire per esprimere un giudizio sulla nostra capitale. Roma è quello che è, una città singolare che già non piaceva molto a Cola di Rienzo prima, al Belli più tardi, i quali però erano poi tenerissimi verso la loro città quando si esprimevano in privato.

Di Roma si può sparlare, anche vituperarla, ma non si può non amarla. E' un emblema che, talvolta, vorremmo calpestare, distruggere; ma subito ci rendiamo conto quale guaio sarebbe se non ci fosse. E dobbiamo ringraziare di averla come capitale proprio per ciò che è stata in passato. Quante grandi città antiche sono sopravvissute alla loro fama, alla loro potenza? Prendiamo Atene. C'è il Partenone, e basta. Qualche statua nei musei, il ricordo delle Olimpiadi, ora rivendicate ai fenici da uno storico libanese, un paio di teatri famosi sparsi qua e là in tutta la Grecia, e non andiamo oltre. Tebe dalle cento porte in Egitto è ridotta a pochi avanzi Non parliamo di Babilonia e Ninive, note soltanto agli archeologi ed a turisti specializzati.
Roma, invece, è lì da sempre, corrotta ed incorruttibile, e proprio per questo unica, irripetibile, insostituibile. Un'Italia senza Roma capitale non è pensabile, e se Garibaldi fece tanto per conquistarla ed i garibaldini si fecero massacrare per farne una repubblica sfidando i chassepots di Napoleone il Piccolo, un motivo l'avevano, e dobbiamo essergli grati che abbiano scatenato le ire degli imperi di Francia ed Austria per contenderla al papa. La breccia di Porta Pia è già un po' mitologica, ma nella nostra storia vale quanto le Termopili greche contro i persiani E' un simbolo che, al di fuori della rettorica scolastica, non conoscerà tramonti A parte le considerazioni di valore nazional-patriottico, ci sono quelle sentimen tal-religiose.
A Roma c'è il Papa, che abita nella Città del Vaticano, il più piccolo Stato del mondo che però fa sentire la sua voce in ogni angolo della terra. Non ha potere temporale, non ha eserciti, tranne alcune guardie svizzere abbigliate alla rinascimentale da Michelangelo, si dice, ma quando parla dalla sua finestra il papa si rivolge davvero urbi et orbi, a Roma ed al mondo, ed è ascoltato come nessun altro monarca di questa terra.
Vola in Messico, nelle Filippine, in Giappone, in Africa, all'Onu, ed ovunque è accolto da folle immense. E' soltanto isterismo collettivo, entusiasmo contagioso? Bisogna andar cauti nel giudicare questo fenomeno, dargli una patente.
Roma, dunque, è una città composita, fatta di bellezze entusiasmanti e di desolanti bassezze, che però non sono un suo privilegio. Privilegi suoi sono Piazza di Spagna, la Scalinata di Trinità dei Monti, San Pietro ed il colonnato del Bernini, la Basilica di Massenzio, il Colosseo, la Passeggiata Archeologica, l'Arco di Costantino, il Tempio di Vesta e tanti altri grandiosi monumenti che soltanto una guida turistico-archeologica può elencare.
Roma è com'è, splendidamente becera e civilissima, con le tavolate di commensali sbracati nelle osterie di Trastevere, le folle sudanti e urlanti sul Lido di Ostia; e delle raffinate boutiques di via Condotti del Caffè Greco, di Piazza del Popolo e di via Veneto.
Roma non è soltanto il nome di una città, è l'espressione di un mondo che ci appartiene, del quale non possiamo fare a meno, anche se spesso vengono alla lingua insulti folgoranti.
Che poi a guardar bene, sono diretti a liguri, lombardi marchigiani romagnoli come già detto avanti i quali più che Roma, rappresentano l'Italia.

Francesco Rosso su La Stampa – 03 maggio 1981 

Scomparso a Torino nel 1991 a 81 anni, Francesco Rosso, giornalista nato a Pertengo, esordì sulle pagine dell' Opinione e poi su quelle della Gazzetta del Popolo, per passare poi, nel 1954, a La Stampa, dove rimase fino alla pensione. ‘Cecco’ Rosso, come lo hanno chiamato affettuosamente generazioni di giornalisti firmò come inviato speciale servizi ed interviste memorabili, tra le quali quelle al Negus, a Ben Gurion e a Che Guevara.
Nel 1975, su sollecitazione di Giovanni Arpino che dirigeva la rivista Il Racconto, costruì una sorta di reportage in cui rievocava i suoi viaggi a Zanzibar quando nel 1960 era ancora colonia britannica. Pubblicò le sue note di viaggio al Gargano di chi lo percorse in lungo e in largo nel corso del Novecento. Francesco Rosso aveva lasciato la professione attiva nel 1976, pur continuando, per anni, a collaborare con varie testate. Riposa accanto alla moglie nel Cimitero di Pertengo.

Johannes Bückler


giovedì 4 dicembre 2014

“Vittime invisibili”. Una piccola storia per non dimenticare.


Milano, 17 maggio 1973

Gabriella Bortolon è una bella ragazza di ventidue anni. Abita dopo San Siro, figlia unica con madre vedova, al primo piano di un enorme caseggiato in Via Fratelli Zoia al civico 105. Da gennaio guadagna 250.000 Lire al mese che servono al sostentamento suo e della madre dato che il padre è morto in un incidente stradale anni prima. Dopo essere stata nominata direttrice, lei e la madre hanno deciso di trasferirsi in un appartamento più grande.

Gabriella è appena arrivata alla Questura a Milano per sbrigare le pratiche relative al rilascio del suo passaporto. Sabato deve recarsi a Londra nel suo primo viaggio all'estero per visionare alcuni campionari. Dirige da qualche mese una boutique a Busto Arsizio.

Nel cortile della questura si sta svolgendo una cerimonia commemorativa ad un anno dalla morte di Luigi Calabresi. Ad inaugurare un busto in suo onore ci sono le autorità cittadine, Mariano Rumor a nome del Governo e una folla imponente che si è assiepata tra l’ingresso e il cortile.

La cerimonia è finita e Mariano Rumor sta per andarsene.

Gabriella è curiosa, si sporge tra la folla per vedere meglio. Uno sguardo prima di proseguire per gli uffici della Questura, Londra l’aspetta. Non vede quel “sasso” che dall’alto sta per cadere tra la gente intorno a lei. Solo quando tocca terra si accorge che quello non è un sasso.



Gianfranco Bertoli è arrivato alla Questura. In tasca ha una bomba a mano di fabbricazione israeliana. E’ riuscito a passare la frontiera portandola con sé da un viaggio in un kibbutz israeliano. E’ appena arrivato nel cortile della questura di Milano in Via Fatebenefratelli, mentre una piccola folla sta defluendo. Forse Mariano Rumor è già uscito, ma non importa. Toglie la mano di tasca e lancia quel “sasso”.

L’esplosione. 

Un mucchio di persone sono riverse sul marciapiede letteralmente allagato di sangue e ricoperto di indumenti, scarpe, berretti e borsette. Sono state investite dallo scoppio e lo spostamento d’aria ha scaraventato alcuni di loro in fondo al marciapiede. C’è fumo, molto fumo e un buio improvviso, tra grida disperate.

Il corpo di Gabriella è quello più composto. Giace distesa sul fianco sinistro, con un braccio teso sotto la testa e l'altro con il pugno chiuso avvicinato al viso. Contrariamente agli altri corpi intorno a lei non c'è molto sangue, né i suoi abiti sono strappati. Un rivoletto di colore rosso sotto la testa scivola verso la borsetta che le è rimasta attaccata al corpo. Uno dei due medici, che si sono trovati di passaggio in via Fatebenefratelli subito dopo l'attentato, si accorge che Gabriella è in gravi condizioni. « Presto venite qui, questa è grave! » grida a due barellieri che stanno caricando su una autoambulanza un'anziana signora. La ragazza emette soltanto un flebile lamento mentre il medico le solleva lievemente la testa.
Viene trasportata in ospedale, ma è troppo tardi. Gabriella è morta.

9 Giugno 2000 – Cimitero di Baggio 

I resti di Gabriella sono stati riesumati. Sono lì dimenticati da tutti (la madre è ricoverata da tempo) da quel maledetto 17 maggio del 1973. Sono scaduti i termini per la concessione della tomba, ma in Comune, facendo una colletta, sono riusciti a dare una giusta sistemazione ai suoi resti. Verrà sistemata nell’ossario con una concessione trentennale.
 Qualcuno propone di dedicarle il giardino di Via F.lli Zoia-Paone-Rosselini. Speriamo

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Oltre a Gabriella in quello scoppio morirono altre tre persone. Federico Masarin, guardia di P.S nato a Ponte di Piave (TV) l’11 maggio 1943. Entrato in Polizia nel 1963, dopo aver frequentato la Scuola Allievi di Caserta, aveva prestato servizio nei reparti di Napoli e Padova ed in seguito alla Questura di Milano. 
L’ex maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Panzino nato a Marcellinara (CZ) il 2 giugno 1909 e Felicia Bartolozzi nata a Vizzini (CT) il 2 settembre 1912. 

Gianfranco Bertoli fu subito arrestato. Si proclamò anarchico individualista, seguace delle teorie di Max Stirner. Sottratto al linciaggio da parte della folla, Bertoli, disse  di avere deciso di compiere la strage per vendicare la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, morto il 15 Dicembre 1969. 

Anni dopo, durante i processi, invece, si dirà che Bertoli voleva colpire il ministro Rumor, colpevole di non aver firmato leggi speciali dopo la strage di Piazza Fontana, quando era Presidente del Consiglio. 
Si disse che l'"anarchico" fosse un agente del Sifar (nome in codice «Negro»). 
Si disse che fosse stato infiltrato nel PCI e dal 1966 al 1971 agli ordini dal Servizio Informazioni Difesa (SID). Condannato all’ergastolo nel 1975, dopo numerosi anni di detenzione e di isolamento, Bertoli ottenne il regime di semilibertà. Ebbe un modesto lavoro, ma ripiombò immediatamente nella tossicodipendenza da eroina. Morì alla fine del 2000 a Livorno. 

Gabriella, come molte altre, è una delle tante “vittime invisibili”. Invisibili come le migliaia di persone che  sono state segnate per sempre da quelle bombe. Invisibili perché ormai scomparse dalla memoria collettiva. Dimenticate. 


“L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare” cantava Francesco De Gregori nel 1979.
Non facciamolo, vi prego. Per loro. Per Gabriella.

Johannes Bückler


mercoledì 5 marzo 2014

5 marzo 1876. Nasce il Corriere della Sera


È la prima domenica di Quaresima. A Milano piove minutamente dal mattino. Alle nove di sera gli strilloni distribuiscono un nuovo quotidiano. Si chiama Corriere della Sera diretto da Eugenio Torelli Viollier, un napoletano di 34 anni, volontario con i Mille.

Tutto il giornale è raccolto in due stanze con tre redattori (oltre al direttore) e quattro operai. I tre collaboratori di Torelli Viollier sono suoi amici. Il prezzo di un numero è di 5 centesimi (un soldo) a Milano, 7 fuori città.

A Milano sono otto i quotidiani che vengono pubblicati. Tra questi "Il Pungolo" (organo dei monarchici), "La Plebe" (preferito da anarchici e socialisti), "Il Gazzettino Rosa" (foglio dei garibaldini), e "Perseveranza" (della Destra). 


Di seguito “Al pubblico”, l’editoriale di Eugenio Torelli Viollier, non firmato, sul primo numero del Corriere della Sera, 5-6 marzo 1876.

Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. 

In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua educazione politica è matura. L’arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio. Vuoi che si dica pane al pane e non si faccia un trave d’una festuca. Sai che un fatto è un fatto ed una parola non è che una parola, e sai che in politica, più che nelle altre cose di questo mondo, dalla parola al fatto, come dice il proverbio, v’ha un gran tratto. Noi dunque lasciamo da parte la rettorica, e veniamo a parlarti chiaro.
***
Noi siamo conservatori. Un tempo non sarebbe stato politico, per un giornale, principiar così. Il Pungolo non osava confessarsi conservatore. Esprimeva il concetto chiuso in questa parola con una perifrasi. Ora dice apertamente: «Siamo moderati, siamo conservatori». Anche noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto, perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità, la libertà, l’ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto: Roma emancipata da’ Papi che la tennero durante undici secoli. In grazia loro vediamo questi fatti singolari: un cardinale che paga la ricchezza mobile, una chiesa protestante presso San Giovanni Laterano, un re al Quirinale. In grazia loro si è udito Francesco Giuseppe d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli». Noi dunque siamo conservatori.
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Siamo moderati, apparteniamo cioè al partito ch’ebbe per suo organizzatore il conte di Cavour e che ha avuto finora le preferenze degli elettori, – e per conseguenza il potere. Questo partito cadrà un giorno, perché tutto cade, tutto passa a questo mondo, ma nella storia avrà una nota di gloria d’impareggiabile fulgore, perché ha condotto a termine due imprese di cui una sola sarebbe bastata ad illustrarlo. Dopo aver compiuto l’unificazione d’Italia, ha restaurato le finanze. Se domani dovesse abdicare, potrebbe, con orgoglio che dà l’adempimento d’un gran còmpito, esclamare: Nunc dimittis, domine. Da un disavanzo annuo spaventevole ci ha condotti al pareggio. Non ancora, dite? Ebbene, sia: mancano venti, mancano trenta milioni: che sono appetto ai 700 che mancavano dieci anni fa? Qualche cosa di peggio che le finanze turche. Allora si discuteva sul fallimento dello Stato e si cercava di agguerrircisi: oggi chi osa più pronunziare questa parola? Come il cavaliere templario della ballata di Schiller, il partito moderato mosse diritto al mostro del disavanzo, con un mastino al fianco. Questo mastino si chiamava l’Imposta – bestia ringhiosa, feroce, spietata; ma senz’essa era follia sperare di vincere. L’Italia unificata, il potere temporale de’ papi abbattuto, l’esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio, – ecco l’opera del partito moderato.
***
Siamo moderati, il che non vuol dire che battiamo le mani a tutto ciò che fa il Governo. Signori radicali, venite fra noi, entrate ne’ nostri crocchi, ascoltate le nostre conversazioni. Che udite? Assai più censure che lodi. Lasciate stare i brontoloni del partito, gl’ipocondriaci, gli atrabiliari, che antepongono i moderati ai radicali unicamente come preferirebbero la febbre terzana al colèra; badate agli altri: nessuno è pienamente contento: si potrebbe dire che c’è più rassegnazione che vera e completa soddisfazione. Non c’è occhi più acuti degli occhi degli amici nostri nel discernere i difetti della nostra macchina politica ed amministrativa; non c’è lingue più aspre, quando ci si mettono, nel deplorarli. È stato già osservato che per udire sparlare, ma sul serio, de’ ministri, bisogna andare in una brigata di deputati di Destra. Ebbene, è vero. Gli è che partito e Ministero sono due cose distinte. Gli è che il partito moderato non è partito immobile, non è un partito di sazi e di dormenti. È un partito di movimento e di progresso. «Noi vogliamo, ha detto il conte di Cavour, la libertà economica, noi vogliamo la libertà amministrativa, noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza, noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento dell’ordine pubblico». Tal è il credo del partito moderato. Senonché, tenendo l’occhio alla teoria, non vogliamo perdere di vista la pratica e non vogliamo pascerci di parole, e sdegniamo i pregiudizi liberaleschi. E però ci accade di non voler decretare l’istruzione obbligatoria quando mancano le scuole e i maestri; – di non voler proscrivere l’insegnamento religioso se tale abolizione deve spopolare le scuole governative; – di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.
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Questo giornale, che è moderato, e vuol essere lo specchio fedele dei pensieri di chi scrive, e delle persone savie che vorranno aiutarci de’ loro consigli, – e li invochiamo, giacché, se siamo indipendenti, non vogliamo restare isolati, – non promette di essere di più facile contentatura dell’altra gente del suo partito; e però non si farà scrupolo di esprimere la sua opinione, quand’anche questa dovesse tornare sgradita a chi sta in alto o a chi sta in basso. – Certo è che se ci avverrà di censurare, ci studieremo di non essere avventati né iracondi, e ad ogni modo le nostre intenzioni saranno rette. Nulla ci ripugna più del tuono minatorio e degli atteggiamenti da gradasso con cui certi giornali di parte nostra credono opportuno, di tratto in tratto, d’affermare la loro indipendenza. La nostra indipendenza, ch’è reale, non avrà bisogno di queste frasche. Il pubblico non tarderà a conoscere in che acque naviga il Corriere della Sera. Errori se ne commisero, se ne commettono, se ne commetteranno. Il paese non fu sempre servito bene dagli uomini che adoperò. Qualcuno se lo ingraziò e salì al potere, avendo una cosa sulla bocca, un’altra nel cuore. Chi peccò per ignoranza, chi per inesperienza, chi per tristizia d’animo. Qualche volta non errarono gl’individui, errò l’intero partito. On tombe toujours du coté où l’on penche, ha detto il Guizot. Il partito moderato inclinò alla grettezza, alla timidità, al fiscalismo, alle idee aristocratiche: noi che vogliamo tenerlo in piedi, non avremo il diritto di gridare quando lo vedremo in pericolo di perdere l’equilibrio?
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Sentiamo dire: – E la disciplina del partito? – State buoni, voi altri, con la disciplina del partito. Un articolo di giornale non è una palla nera o una palla bianca. Una palla nera può rovesciare un Ministero, cento articoli non lo scrollano. La disciplina di partito è indispensabile alla Camera: quante nobili coscienze ne ha allontanate questa dura legge! Il giornale non ne è esente del tutto, ma porta certamente un freno assai più largo. Guardate i giornali inglesi, i migliori d’Europa, come si muovono liberamente nell’ambiente del loro partito. Certo, se c’è cosa che abbiamo in odio, è il giornale a tesi, il giornale che guarda ogni materia dal lato dell’opposizione al Ministero o dell’appoggio da dare al Ministero; il giornale che gira ogni mattina nello stesso circolo d’idee, come il cavallo nella cavallerizza; il giornale organetto, che ha due sole suonate, una in maggiore per esaltare i meriti de’ suoi amici, una in minore per gemere su’ demeriti degli avversari. Ci piace essere obbiettivi; ci piace ricordarci che tu, pubblico, non t’interessi che mediocremente ai nostri odî ed ai nostri amori; che vuoi anzitutto essere informato con esattezza; ci piace serbare, di fronte a’ nostri amici migliori, la nostra libertà di giudizio, ed anche, se vuolsi, quel diritto di frondismo ch’è il sale del giornalismo.
***
Sentiamo dire ancora: Badate, voi dividete il partito. – Davvero? ma era forse diviso il partito quando esisteva a Milano un altro giornale della sera ad un soldo? Crediamo invece che non fu mai tanto forte quanto allora. È diviso il partito radicale perché ha due organi pomeridiani invece d’uno? Ci pare piuttosto che sia, o si creda, più vigoroso oggi che sei mesi fa. Noi non nasciamo per far guerra ai giornali del nostro stesso colore politico; non è ai loro lettori che diamo la caccia. È nel campo degli avversari comuni che confidiamo raggranellarli. E che! dovrebbe durare a Milano la voga di giornali che ogni giorno scoprono una nuova infamia del Governo, che riempiono le loro colonne con un interminabile enumerazione di delitti a carico di quanti primeggiano nella cosa pubblica, giornali che descrivono l’Italia come la preda d’un’oscena banda di malfattori? Dovrebbe il pubblico compiacersi a lungo di giornali che mostrano di tenere ogni persona investita d’una pubblica carica nel conto d’un gaglioffo della peggiore specie? Ma s’essi avessero ragione, se la classe dominante fosse davvero quella che dicono, l’Italia che la tollera sarebbe la più corrotta e la più vigliacca delle nazioni. No, no, la classica terra del buon senso, la patria di Parini e di Manzoni, non può compiacersi a lungo di tali esagerazioni e stravaganze. Sono i lettori di quelle corbellerie che noi vogliamo conquistare, contro di loro si debbono rivolgere le forze riunite del Corriere e de’ giornali che militano sotto le stesse bandiere. A’ giornali dello scandalo e della calunnia sostituiamo i giornali della discussione pacata ed arguta, della verità fedelmente esposta, degli studi geniali, delle grazie decenti, rialziamo i cuori e le menti, non ci accasciamo in un’inerte sonnolenza, manteniamoci svegli col pungolo dell’emulazione, e non ne dubitiamo, il Corriere della Sera potrà farsi posto senza che dalla sua nascita abbiano a dolersi altri che gli avversari comuni.

giovedì 22 novembre 2012

Vita (impossibile) con i guadagni finti.


A Milano il 50% dei contribuenti dichiara meno di 15.000 euro lordi l'anno (zero redditi compresi). Prendendo spunto da questo dato, questa la lettera.

Caro Direttore,
le dichiarazioni di Befera per cui ci sarebbero «4,3 milioni di contribuenti non congrui» sono addirittura ottimistiche.
Basterebbe avere i dati della città più ricca, Milano, per capire la gravità della situazione e del livello raggiunto dall’evasione.
Prendo sempre a esempio Milano perché solo pubblicando i redditi della «città più ricca», «che paga più tasse» e «che evade meno», si potrebbe comprendere meglio il fenomeno.
Se si prendono i dati un anno prima della crisi (altrimenti qualcuno potrebbe obiettare), appare un quadro desolante.
Secondo uno studio della Camera di Commercio, una famiglia milanese di due persone spende 2.977 euro al mese. Lo stesso studio dice che imprenditori e liberi professionisti spendono 4.500-5.000 euro mese.
Inoltre dice chiaramente che a Milano è impossibile vivere con 15.000 euro l’anno.
Testualmente: «Un reddito di 15.000 euro l’anno non è sufficiente a coprire i consumi necessari. Chi si trovasse in questa fascia di reddito sarebbe in forte difficoltà economica, in condizioni di povertà assoluta».
Qualcuno, anzi molti, mentono.
Un caro saluto
Johannes Bückler

21 Novembre 2012 -  Corriere della Sera