Disclaimer

Al fine di mantenere il blog nell'ambito di un confronto civile e costruttivo, tutti i commenti agli articoli espressi dai lettori verranno preventivamente valutati ed eventualmente moderati. La Redazione.

venerdì 11 novembre 2016

La scelta


Strana la vita. Ad Amburgo avevo una bottega di barbiere e ora, senza nemmeno sapere esattamente il perché, mi ritrovo in Polonia.

Faccio parte della prima compagnia del battaglione cui è stato assegnato il compito di pacificare una zona appena conquistata. Almeno credo. Con me ci sono operai, commercianti, artigiani, rappresentanti, imprenditori, impiegati, in tutto il battaglione comprende circa cinquecento uomini. Uomini comuni.
Tra noi, almeno prima del 1933, molti socialisti, alcuni persino iscritti al sindacato. La maggior parte troppo vecchi per essere arruolati nell'esercito, molti alle prime armi, senza nessuna esperienza.

13 luglio 1942. Bilgoraj (Polonia) 

E’ ancora buio. Siamo stati svegliati di soprassalto e scaraventati giù dalle nostre cuccette in un vecchio edificio scolastico adibito da tempo a caserma. Fa piuttosto freddo per la stagione e ci arrampichiamo con fatica sui camion in partenza. Ci hanno consegnato molte munizioni, ma nessuno conosce la destinazione, tanto meno i particolari della missione. Usciti dalla città ci dirigiamo ad est su strade sassose e dal fondo sconnesso, impiegando circa due ore per fare i trenta chilometri che separano la città di Bilgoraj dal villaggio di Józefów.

Quando arriviamo il villaggio è ancora immerso nell’oscurità. Saltiamo giù dai camion e ci disponiamo in semicerchio attorno a “papà Trapp”. Papà Trapp è il nomignolo con cui chiamiamo il nostro maggiore, Wilhelm Trapp, veterano della prima guerra mondiale. Trapp ha il viso tirato e lucido mentre ci spiega i termini della missione.
E’ pallido, rattristato e una volta terminato di parlare pone a tutti noi una domanda: “se qualcuno fra di voi non si sente all’altezza del compito affidatogli può fare un passo avanti".
Ci viene data la possibilità di scegliere.

Il primo ad uscire dai ranghi è Otto-Julius Schimke. Dopo di lui altri undici uomini fanno un passo avanti. Consegnano i fucili e rimangono in attesa di ricevere altri incarichi.

La sera prima Trapp si era incontrato con i comandanti della prima e della Seconda Compagnia il capitano Wohlauf e il tenente Gnade informandoli dell’operazione. Fu informato anche il tenente Heinz Buchmann che ad Amburgo faceva l’imprenditore di legname. Saputi i particolari dell’azione aveva comunicato ai suoi superiori che lui era un imprenditore e certe cose non era disposto a farle. Gli venne affidato un altro incarico.

Gli ordini sono precisi. Circondare il villaggio, rastrellare uomini in grado di lavorare da destinare a Treblinka. Radunare poi tutti gli altri, vecchi, donne e bambini nella piazza del mercato, ma non i deboli e i malati impossibili da trasportare, quelli dobbiamo fucilarli sul posto. Tutti gli altri vanno fucilati nel bosco.

E’ il medico a istruirci su come uccidere con un colpo solo quella gente provocandone la morte immediata. Per fare questo disegna in terra il contorno di una persona e ci indica il punto in cui dobbiamo appoggiare la baionetta prima di sparare.

Ci dividono in tanti plotoni di esecuzione e cominciamo. Il primo carico di circa quaranta persone arriva su un camion. A ogni persona viene abbinato uno di noi, faccia a faccia con la vittima. Diciamo a quelle persone di sdraiarsi per terra, in fila. Poi avanziamo sopra di loro, piazziamo le baionette sulla spina dorsale al di sopra delle scapole secondo le istruzioni ricevute. E spariamo.
O meglio, io non riesco a farlo, non ce la faccio.

Io, Hans Dettelmann, barbiere di quarant’anni, non riesco neppure a sparare il primo colpo e chiedo immediatamente di essere esonerato. Mi viene affidato un altro incarico.

Solo dodici persone avevano fatto un passo avanti chiedendo di essere esonerate dopo aver saputo dell’operazione, ma durante la giornata molti si tirarono indietro.

Ricordo che Walter Niehaus, ex rappresentante delle sigarette Reemtsma, fucilò per prima una donna anziana. Dopo che l’ebbe uccisa, andò da Bentheim, il suo sergente, e gli disse che non poteva fare altre esecuzioni. Non fu costretto a continuare.

Georg Kageler, un sarto, cominciò ad avere problemi molto presto. Dopo la prima fucilazione gli toccò uccidere una donna e la sua bambina. Parlando con loro aveva scoperto che erano tedesche di Kassel. Si rifiutò di proseguire le fucilazioni.

Il sergente Bentheim, che si trovava nel punto in cui i camion scaricavano quelle persone, vedeva emergere dal bosco uomini coperti di sangue e pezzi di cervello, con il morale a terra e i nervi a pezzi. Consigliava a coloro che gli chiedevano di essere sostituiti di svignarsela e raggiungere la piazza del mercato.
Alcuni, per non dimostrare la propria codardia, trovavano altri modi per non espletare l’incarico. Per esempio mancando volontariamente la vittima. Per questo alcuni sottufficiali si fornirono di fucili mitragliatori per dare ai feriti il colpo di grazia. Le squadre si alternarono per tutta la giornata, una quarantina di persone alla volta. Nella pausa di mezzogiorno venne distribuito alcool in abbondanza ai plotoni di esecuzione. Ne avevano bisogno.

 All’imbrunire di quel lungo giorno d’estate le esecuzioni divennero ancora più disorganizzate e febbrili, per la fretta di portare a termine il massacro. Il bosco era pieno di cadaveri, tanto che era difficile ogni volta trovare posto per far sdraiare le vittime. L’oscurità scese verso le nove di sera; gli uomini del bosco, dopo aver ucciso le ultime persone, tornarono sulla piazza del mercato e si prepararono a partire per Bilgoraj. Non erano stati fatti piani per il seppellimento dei cadaveri.
I corpi dei 1500 ebrei che avevamo massacrato furono lasciati nel bosco.

Il mio Battaglione continuò i massacri nei mesi successivi.
Ad agosto 1500 ebrei furono uccisi a Lomazy e 960 a Mjedzyrzec.
A settembre massacrammo 200 ebrei a Serokomla e 200 a Kock
Ad ottobre 100 a Parczew, 1.100 a Konskowola e altri 150 a Mjedzyrzec.
A novembre 290 a Lukow, 16.500 a Majdanek, 14.000 a Poniatowa e 1.300 nel distretto di Lublino.

Fra il 13 luglio 1942 (il primo massacro) e il 5 novembre 1943, il mio battaglione rastrellò e uccise uno ad uno 38.000 ebrei, quasi tutti donne vecchi e bambini. Partecipò inoltre al rastrellamento e alla deportazione a Treblinka di altri 45.000 ebrei idonei al lavoro.

Marzo 1942 
Nel marzo 1942 l'80% delle future vittime dell'Olocausto era ancora in vita. Il 20% era già stato ucciso. Un anno dopo, nel febbraio del 1943, il dato era esattamente capovolto. Che accadde in quei pochi mesi? Com'è stato possibile organizzare in così poco tempo una vera guerra lampo con la mobilitazione di migliaia di uomini che dovevano ripulire interi paesi dove gli ebrei raggiungevano a volte l'80% della popolazione? Oggi sappiamo come fu possibile. 

Nella sede della Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen, l'ufficio della Repubblica Federale Tedesca per il coordinamento delle indagini sui crimini tedeschi, (costituita nel 1958), esiste un archivio. All’interno si possono trovare tutte le deposizioni, accuse e le relative sentenze, dei processi per crimini nazisti commessi dai tedeschi contro gli ebrei in Polonia. Quei 500 uomini comuni, che massacrarono 1500 ebrei nel villaggio di Józefów, facevano parte del Battaglione 101.

Durante gli interrogatori quegli uomini elaborarono molte giustificazioni al loro comportamento.
La maggior parte si rifugiò nella facile scusa secondo cui: “non partecipare alle fucilazioni non avrebbe in nessun caso cambiato il destino degli ebrei”. 

Ma la più sorprendente fu quella fornita da un operaio metallurgico di Bremerhaven: “Tentai di uccidere solo bambini, e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per mano, il mio vicino uccideva la madre e io il figlio, perché ragionavo tra me che dopotutto, senza la madre, il figlio non avrebbe più potuto vivere. Il fatto di liberare i bambini che non potevano più vivere senza le madri mi pareva, per così dire, consolante per la mia coscienza”. 

“Non è affatto vero che coloro che non volevano o non potevano uccidere altri esseri umani con le proprie mani non potevano evitarlo. Non c’era alcun controllo serio. Io per esempio rimasi sempre vicino ai camion che arrivavano. Era inevitabile che questo o quel compagno notasse che non partecipavo alle esecuzioni e non sparavo alle vittime. Per esprimere il loro disgusto mi coprirono di insulti come «faccia di merda» e «smidollato». Ma non subii alcuna conseguenza per le mie azioni. Devo aggiungere che non fui l’unico che si sottrasse alle esecuzioni”. 

Quasi tutti i membri del Battaglione 101 sopravvissero alla fine della guerra e tornarono in Germania. Dopo la guerra, solo quattro membri subirono conseguenze delle loro azioni in Polonia. Nel 1962 il Battaglione 101 fu posto per intero sotto investigazione dalla Procura di Amburgo. Nel 1967, quattordici membri furono messi sotto processo e anche se la maggior parte fu condannata, solo cinque andarono in prigione, scontando una pena dai cinque agli otto anni, ridotti poi nel corso di un lungo processo di appello.

P.S. Ho volutamente omesso le parti più raccapriccianti delle deposizioni.

Erano semplici operai, commercianti, artigiani, impiegati, imprenditori, uomini comuni. Fu data loro la possibilità di scegliere. Preferirono trasformarsi in mostri. 

Nelle elezioni del 1933, milioni di tedeschi diedero piena fiducia a Hitler.
Nel novembre dello stesso anno, 40 milioni di tedeschi votarono a favore della politica estera e del nuovo Reichstag sulla lista unica presentata dal Governo. .
Alla fine della guerra erano iscritti al Partito Nazista 8,5 milioni di tedeschi.



martedì 2 agosto 2016

Se l'anti-gender è una donna

La Regione Lombardia ci informa che da settembre sarà attivo uno sportello e un telefono ribattezzato dal Pirellone telefono anti-gender.
Il servizio, a detta loro, "costituirà un valido strumento di contrasto all'ideologia gender". Servirà a "fronteggiare eventuali casi di forme di disagio nel percorso educativo degli alunni, avendo come stella polare i valori non negoziabili della famiglia naturale e della tutela della libertà educativa in campo alla famiglia stessa". Per contrastare, secondo loro, l'applicazione dell'articolo 1, comma 16, della legge cosiddetta Buona Scuola.
Ora, il comma 16 parla d’altro, di “attività finalizzate all’attivazione di percorsi educativi di lotta alla discriminazione per orientamento di genere”, ovvero quelle attività che dovrebbero prevenire i troppi casi di bullismo di matrice omofoba che purtroppo affollano le cronache. In sostanza una norma di civiltà. Una norma, fra l’altro, che risponde all’esigenza di dare attuazione ai princìpi costituzionali di pari dignità e non discriminazione di cui la nostra Costituzione all’art. 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sorprende che questi personaggi si atteggino a difensori della Costituzione invitando a votare No al referendum sulla riforma costituzionale.
Fa specie il fatto che a portare avanti il progetto dello sportello anti-gender sia l’assessore alle Culture, identità e autonomie della Regione, Cristina Cappellini. Una donna appunto. Che dovrebbe conoscere certe dinamiche.
Che dovrebbe conoscere per la maggiore sensibilità che contraddistingue una donna, quell'insieme di vessazioni, offese, minacce, atteggiamenti aggressivi, maldicenze che possono spingersi fino alla violenza su esseri umani particolarmente indifesi.
E come se non bastasse, pochi giorni dopo durante un comizio a Cremona, il suo segretario Matteo Salvini, è salito sul palco con una bambola gonfiabile paragondola al Presidente della Camera Laura Boldrini. A vedere tutte quelle donne che sorridevano sotto il palco mentre la figura femminile era paragonata a qualcosa d’inanimato, a un niente, mi ha messo tanta tristezza.
Come un progetto anti-gender portato avanti da un assessore donna.
Tanta, ma proprio tanta tristezza.

Johannes Bückler

30 Luglio 2016 - Corriere della Sera - Bergamo - Leggi qui >>>>>

venerdì 24 giugno 2016

Quel 28 ottobre 1971 alla Camera dei Comuni...


28 ottobre 1971 – Camera dei Comuni 

L’atmosfera era carica, le gallerie di diplomatici affollate di spettatori, l’ingresso del palazzo di Westminster bloccati dai manifestanti. C’erano persino sostenitori e curiosi tra i passanti nelle strade limitrofe, gente che non voleva assolutamente mancare un’occasione tanto importante. Il dibattito sulla richiesta della Gran Bretagna di aderire alla Comunità Europea aveva ormai raggiunto il suo culmine.

La Camera stava per votare.

“Vedete laggiù la galleria degli ambasciatori?”, mormorò un addetto anziano. “Non l’ho mai vista così piena da quando ho cominciato a lavorare qui”. Per coloro che ebbero la fortuna di assistere a quell’evento, in un epoca non ancora dominata dalla televisione, il dibattito sembrò trasformarsi in un palcoscenico per molti parlamentari, dal focoso Michael Foot al pacato Jim Callaghan, al disinvolto Jeremy Thorpe.
 Anche Jeffrey Archer decise di parlare, ma solo per lamentarsi delle code all’esterno della Camera. Ma quando il Primo Ministro conservatore Edward Heath prese la parola, l’atmosfera sembrò diventare ancora più elettrica.

Hearth era noto per essere un oratore impacciato con le sue vocali strozzate che riflettevano l’insicurezza derivata dall’umile infanzia nel Kent. Fin da quando aveva servito nell’artiglieria reale, durante la seconda guerra mondiale, il primo ministro si era mostrato un appassionato sostenitore del futuro europeo della Gran Bretagna. Ora era arrivato il suo momento.
“Penso che nessun primo ministro prima d’ora abbia chiesto a quest’aula in tempo di pace di prendere una decisione di tale importanza, come mi accingo a fare in questo momento”, esordì. Elencò poi i grandi cambiamenti avvenuti nel mondo nel corso degli ultimi anni, dall’inizio della globalizzazione all’ascesa della Cina.

Dopo il discorso di Heath, la Camera procedette con il voto. Nessuno poteva prevedere il risultato. Quanti conservatori ribelli si sarebbero uniti a Enoch Powell sfidando le ire del partito? Quanti laburisti favorevoli all’Europa avrebbero seguito Roy Jenkins, l’ex cancelliere e guida dell’intellighenzia liberale nella lobby governativa? La tensione era tale che si sarebbe potuta tagliare con un coltello ed alcuni amici di Jenkins erano così preoccupati della sua sicurezza che Roy Hattersley suggerì di organizzare alcune guardie del corpo per scortarlo fino alla macchina dopo la fine della votazione.

Quando finalmente gli scrutatori annunciarono il verdetto – 356 voti favorevoli all’ingresso in Europa, 244 contrari – ci fu una vera e propria esplosione di grida e di insulti. “Bastardo fascista”, gridarono gli avversari all’indirizzo di Jenkins, mentre altri spintonavano e cercavano di prendere a pugni i compagni “traditori” che si erano ribellati alle direttive del partito. Perfino l’austero Enoch Powell si lasciò coinvolgere nella baraonda. “Non si doveva fare, non si doveva fare”, si mise a gridare dal suo banco.


La notizia del voto viaggiò velocemente. L’ex primo ministro Harold Macmillan era rimasto in attesa sulle scogliere di Dover con un grande falò preparato dal movimento europeo. Appena giunse il risultato il falò fu acceso tra le acclamazioni di 500 persone presenti. Più avanti nella notte, un fuoco di risposta venne acceso sulla riva opposta, nel continente, vicino a Calais.

Ma quello fu un giorno di gioia immensa, il più bello di tutta la sua vita politica, soprattutto per un uomo che restio a manifestare le sue emozioni in pubblico. Edward Heath, che si eclissò dai festeggiamenti. Ripensò, come scrisse più tardi, “ai campi di battaglia in Francia, Belgio e Olanda, ai raduni di Norimberga e alla voce scoppiettante di Wendell Wilkie che ascoltavo alla radio nel mio posto di comando in Normandia, nel 1944, e che parlava di un solo mondo”.

Quando giunse al numero 10 di Downing Street, il più riservato degli uomini politici andò nel soggiorno, si sedette al clavicordo e diede libero sfogo alle sue emozioni suonando il primo preludio e fuga per clavicembalo di Bach. Dopo dieci anni di lotta, aveva realizzato il suo sogno.

Ma solo quando la “voce calma e sommessa del clavicordo” smise di risuonare, Healt fu sopraffatto dalla felicità.

History – Dominic Sandbrook, autore del libro “State of Emergency: the Way We Were Britain. 1970-1974


mercoledì 22 giugno 2016

Schio, una strage dimenticata. Fino ad oggi.


06 Luglio 1945 - Schio, provincia di Vicenza

Una lieve brezza ha spazzato via l'afa. La guerra è finita da nove settimane. In via del Baratto, l'edificio delle carceri ha una grande portone in legno e inferriate alle finestre.

Di fronte alla prigione c'è l'Osteria dei Tre Morari, meta ambita di molti abitanti. Tra partite di scopa e quartini di vino anche i custodi del carcere passano lì il loro tempo libero. Sono le 20 e Giuseppe Pezzin, capo guardiano, si accinge a salutare gli amici e a rincasare nell'alloggio al primo piano.

Due giovanotti armati lo fermano sull'uscio :"Vieni con noi" ingiungono i due. "Non ho fatto niente", replica il Pezzin pensando a qualcosa di spiacevole. "Vieni con noi e basta". Giuseppe li segue.

Fa ancora chiaro, e verso occidente il cielo è di un rosso vivo. Ai due accompagnatori si aggiunge una terza persona che intima al Pezzin: "Dacci le chiavi del carcere". Il Pezzin obbedisce. Ha paura per sé e per la sua famiglia. Arrivati alla prigione i tre si infilano nell'androne. Da un angolo sbuca un altro gruppo di uomini armati. Alcuni sono mascherati, entrano e si avviano nell'ufficio matricola per visionare l'elenco dei detenuti. La prigione di Schio ha due cameroni di 10 metri per 6. Uno al pianterreno e uno al primo piano.

Di regola i detenuti sono pochi. Ubriachi molesti o ladruncoli, ma in questi giorni ci sono 99 persone. Non tutti sono fascisti. Gli uomini lo sanno. Ma importa poco. I prigionieri vengono ammassati alle pareti dei due cameroni. E' circa mezzanotte. Il Pezzin, rinchiuso in un angolo della prigione con la sua famiglia, sente le raffiche. Quattro minuti durano. A terra un groviglio di corpi, uomini, donne e giovani. Un vero carnaio.

Quegli uomini hanno appena massacrato 54 persone, tra cui 14 donne (una ha 17 anni) e 7 minori.

Quello che trovarono i soccorritori fu qualcosa d’indescrivibile. Dalle scale della prigione un fiume di sangue aveva raggiunto la strada. Incrociando gli assassini in ritirata furono costretti a gettare a terra le barelle per non essere malmenati. Quando entrarono videro qualcosa di terrificante. In un groviglio spaventoso di corpi si udivano i lamenti di alcuni feriti, le urla di disperazione di chi era sopravvissuto a un loro caro. Come Umberto Perazzolo e il maestro elementare Rino Tadiello, abbracciati ai cadaveri dei loro figli.

Perchè Schio? In quei giorni si era diffusa la notizia che 13 cittadini di Schio erano morti a Mauthausen. La voce che girava era: "dobbiamo vendicarli". Il popolo chiedeva vendetta.

Il mandante si chiamava Gino Piva. Il suo braccio destro Ruggero Maltauro. Naturalmente fascisti anche loro fino 25 luglio del 1943. Antifascisti dal giorno dopo. Maltauro addirittura membro della polizia ausiliaria.

Non ci volle molto a convincere qualcuno che bisognava vendicarsi. All'inizio pensarono pure di far saltare il carcere con tutti dentro.

“Quella notte erano in giro per Schio, uno con la fidanzata, uno alle giostre, altri nelle balere, al caffè, a bighellonare in attesa di far tardi, da bravi vitelloni locali”
La mattina dopo per Schio a vantarsi di quello che avevano fatto. Nessun pentimento o rimorso. 

L'autorità militare alleata, che aveva poteri sovrani in Italia, avocò a sè le indagini e accertò che la strage era stata decisa da elementi fanatici e individuarono i 15 responsabili. 

Accertarono che delle 54 vittime solo 27 avevano aderito (solo simpatizzanti) alla Repubblica di Salò. Altri erano lì per reati comuni o in attesa di giudizio.

Come andò a finire?

Vi furono subito arresti e confessioni, pure condanne, ma per soli pesci piccoli. I maggiori responsabili se la cavarono fuggendo all’estero.

#MdT 13/09/1945 Questa la prima sentenza, tra cui spicca la condanna a morte per Bortolaso Valentino. 




Leggila integralmente >>>>>

#MdT 21/12/1945 - Le condanne a morte dei responsabili dell'eccidio di Schio (tra cui Valentino Bortolaso) sono commutate in ergastolo.


Poi la solita conclusione all’italiana, gli indulti, le amnistie, infine tutti a casa, dimenticati.
Tutto dimenticato. Fino ad oggi...


#MdT 21/06/2016 - Valentino Bortolaso, uno dei responsabili dell'eccidio di Schio viene insignito dal prefetto di Vicenza della “medaglia d’oro della Resistenza”. 

Giovanni Bortolaso, eroe della Liberazione.
L’uomo (arrestato per l'eccidio) che il 22 Agosto 1945 aveva rilasciato questa deposizione:


“Io diedi l’ordine a quelli che rimasero giù di sparare quando avessero sentito sparare di sopra. Abbiamo tolto gli 8 o 9 uomini prigionieri delle due piccole celle del primo piano e li abbiamo portati al secondo piano dove c’erano le donne detenute, mettendoli davanti ad esse. Due donne, detenute comuni erano state tolte dal gruppo delle detenute e portate fuori, ma non so dove. Incominciammo a sparare verso le 12 e ¼. I primi colpi vennero sparati al piano superiore. Io avevo due caricatori con circa 70 colpi in tutto.Quando pensammo che tutti fossero morti, siamo usciti tutti assieme dalle prigioni, poi ognuno se ne andò per conto suo”.

Leggi l’intera deposizione >>>>>>

La notte tra il 6 e il 7 luglio 1945, nove settimane dopo la fine della guerra, rimasero sul pavimento del carcere 54 corpi . Uccisi solo per vendetta. Una vendetta atroce, inutile.

Che non meritava certo una medaglia d’oro. Ieri, come oggi.

Johannes Bückler


giovedì 2 giugno 2016

Paolo Savona. Chi è costui?


Paolo Savona? “Un grande studioso e un bravo parlatore, ma un pessimo organizzatore”, parole di Franco Mattei (direttore generale uscente di Confindustria nel 1976 quando arrivò Savona). Non so sia vera la definizione di pessimo organizzatore, sicuramente uno litigioso, quello sì. Il suo carattere difficile si è scontrato un po’ con tutti.
Da Romano Prodi quando era all’Iri, a Franco Bernabè quando era all’Enel. Litigò pure con Antonio Cassese sulla privatizzazione dell’Enel e litigò pure con Francesco Saja. Nell’ottobre del 1983 disse “basta litigare”. Se non mi date ragione mi dimetto. Naturalmente non si dimise. Il suo punto di riferimento era Giorgio La Malfa, amico personale, ma non disdegnava frequentare democristiani.

Negli anni ’80 guai a chiamarlo “politico”, lui era solo un tecnico al servizio della politica. Era stato Carli nel 1976 a portarlo con sé. Un nome che oggi farebbe inorridire i grillini perché il suo attaccamento alle poltrone è proverbiale.

Era alla presidenza del Credito industriale sardo nel 1982 quando fu nominato Segretario generale della Programmazione con La Malfa ministro del Bilancio. Gli fecero notare che la legge non consentiva la compatibilità del nuovo incarico con quello precedente. Lui alzò le spalle e si tenne i due incarichi.

Nella BNL (nel 1992) fece anche peggio. Una volta nominato direttore generale e poi amministratore delegato gli fecero notare due cose. Primo doveva essere assunto  dalla BNL e poi successivamente  dimettersi da tutti gli altri incarichi per incompatibilità (secondo la legge). Lui ci pensò un attimo e trovò la soluzione. Farò il direttore generale della BNL non c'è bisogno di assumermi, mi pagate lo stesso e così non lascio tutti gli altri incarichi. Forte. Non durò molto nemmeno lì. Alla prima litigata con Cantoni (comando io comandi tu) si guardò intorno e trovò un incarico che non era incompatibile con tutti gli altri incarichi. E andò alla presidenza del Fondo interbancario di garanzia.

E' ospite fisso al Bilderberg. A suo tempo era solito andarci con l'amico Gianni Agnelli usando il Concorde.

Giudicarlo è impossibile. L'unica cosa certa che  da vero “liberista”, come si definiva, era un pochetto ondivago.
Le sue idee sulle privatizzazioni cambiavano continuamente e a volte incomprensibilmente. Come quando si parlò di privatizzare la Stet. W la privatizzazione, ma solo alle famiglie Pirelli e Agnelli, disse, altrimenti niente.

Era talmente liberista che quando il presidente dell' Eni Franco Bernabé decise di chiudere gli stabilimenti Enichem di Crotone perché in perdita e improduttivi, lui si oppose apertamente.

Cassese pensava alla riorganizzazione dell' ente di vigilanza sulle assicurazioni, l' Isvap? E lui era contrario. Un liberista che nessuno capiva.

Quando l’Antritrus definì il progetto per la privatizzazione dell' Enel un autentico "monopolio privato" di chi era il progetto? Sempre suo. Del liberista Paolo Savona.

Un tipetto che guai a criticare il suo lavoro o le sue idee. Quando si dimise dopo l’ennesima litigata con Prodi sulle privatizzazioni giurò che non sarebbe mai più tornato alla politica. Qualche incarico non politico quello sì però (te pareva).

Come tutti quelli che invecchiano male e non riescono a sopportare l'oblio, da alcuni anni persegue il filone che riesce a dare anche a dei semplici sconosciuti economisti visibilità e soldi. Parlo dell'antieuropeismo. Si vanta infatti di aver scoperto un famigerato "Piano Funk" (ministro dell'economia nazista) che prevede una Germania egemone dove tutte le monete si devono comportare come il marco tedesco. Un complotto tipo "Piano Kalergi" per intenderci. Che dire. Walter Funk era un semplice esecutore (aveva sostituito Hjalmar Schacht poco malleabile a detta di Hermann Goring) e può darsi abbia scritto cose del genere a quei tempi. Ma credere ai complotti, via. Siamo seri.
E poi, un membro del Bilderberg che crede ai complotti? Fa ridere dai.

Johannes Bückler

martedì 31 maggio 2016

"Mussolini ha fatto anche delle cose buone".


Un passo indietro 

Giugno 1948 
Il Ministro delle Finanze Ezio Vanoni ha ricevuto l’incarico di migliorare un sistema tributario antiquato. Un sistema costituito da numerose imposte che grava soprattutto sui ceti medi rispetto, per esempio, alla grande borghesia. Le imposte dirette sono solo ¼ delle entrate fiscali. E’ necessario commisurare l’imposta al reddito realizzato ed applicarla alla realtà.

Gennaio 1951
Legge 11 gennaio 1951, n. 25, detta anche legge Vanoni. E’ il primo atto legislativo di perequazione tributaria. Suo scopo è quello di instaurare, attraverso la dichiarazione, un nuovo clima nei rapporti con il fisco. La dichiarazione sarà annuale, analitica ed unica, e permetterà al fisco di conoscere la situazione complessiva del contribuente. La legge Vanoni ha inoltre disposto una nuova tabella di aliquote, che va da un minimo del 2% ad un massimo del 50%, riconoscendo al tempo stesso il minimo esente di 240.000 lire e la detrazione di 50.000 lire per ogni membro a carico del contribuente, incluso il coniuge.

Sabato 27 gennaio 1952 
La sede dell’Ufficio Tributi del Comune di Roma si trova in via del Teatro di Marcello. Coincidenza vuole che si trovi a pochi metri dalla “Bocca della Verità”. Oggi è un giorno particolare, atteso da molti giornalisti. In base alla legge Vanoni, ogni comune è tenuto a rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi dei cittadini italiani. Tra poco quelle del 1951 che fanno riferimento ai redditi del 1950. I giornalisti però stanno aspettando soprattutto quelle dei politici. Troppo forte la tentazione di beccare qualche potente di turno in castagna.
Non sanno ancora quello che sta per accadere.

I corridoi del pianterreno dell’Ufficio Tributi sono affollatissimi. Oltre ai giornalisti ci sono molti cittadini comuni. Chiaro il loro intento. Sono lì perché vogliono conoscere le cifre dichiarate da amici e conoscenti. La curiosità è enorme.

Si inizia.
Per i giornalisti la caccia ai redditi delle varie personalità, della nobiltà, dello spettacolo, ma quando arrivano alla parte riguardante i politici qualcosa non torna.

Il primo nome è quello del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, tra i primi a consegnare la dichiarazione dei redditi. Il Capo dello Stato ha dichiarato per l’anno 1950 una cifra pari a 1.259.000 . Subito dopo Einaudi con lire 1.290.000, Campilli con 8.337.125 e Merzagora con 6.500.000. Il senatore Mario Cingolani 1.328.425 e il senatore Giorgio Tupini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio 1.940.000.

Prime perplessità: il ministro Vanoni ha dichiarato solo 181.300 lire. De Gasperi ancora meno, 108.000 lire. E poi? Niente. Non ci sono tracce di altri politici. Tutti gli altri non hanno dichiarato redditi.

Dove sono i redditi di Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Mario Scelba, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Renato Angiolillo, Mauro Scoccimarro, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Saragat? Tutti nullatenenti? Impossibile. Per stare sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama lo Stato corrisponde loro 250.000 lire mensili quindi 3.000.000 di lire annui. Ministri e  sottosegretari ricevono un’indennità ancora maggiore. Perché allora i maggiori esponenti politici italiani non hanno dichiarato nulla? Il mistero viene svelato quasi subito.

Quasi tutti i politici non hanno dichiarato redditi nel 1950 grazie ad una legge fascista del 30 novembre 1929. Mentre la dittatura cancellava tutte le libertà, il ministro delle Finanze del governo guidato da Benito Mussolini, Antonio Mosconi, stabiliva che le indennità parlamentari fossero esenti dal prelievo fiscale.

La dittatura è finita, ma si sono tenuti questo privilegio. Non pagare le tasse sfruttando una legge fascista. Una legge non solo mai abrogata (come era successo alle altre) ma addirittura ribadita con la legge n. 1102 del 9/08/1948. Con 338 voti favorevoli, 37 contrari e 2 astenuti.

Diversi i tentativi di cancellare la legge n. 1102 del 9/08/1948.

13 Marzo 1952 
Proposta di legge del deputato Rodolfo Vicentini (DC) per la cancellazione dell’art. 3 della legge n. 1102 del 9/08/1948. 

Ma la maggioranza non è d’accordo.

27/01/1954. 
Altra proposta di Vicentini. Ma non se ne fa niente. 

1958
E poi ancora. Flavio Orlandi (PSDI).

Troppi i cassetti negli edifici del Parlamento. Le proposte di legge spariscono.

1962 
Malagodi del PLI ritrova la proposta di legge Vicentini e la ripropone in Parlamento. Ma ad aprile si vota. Viene riposta nel cassetto.

1963 
Giuseppe Amadei (PSDI) la ritrova e la ripropone più articolata. Ma sparisce in un altro cassetto.

1965 
Con l’opinione pubblica sempre più arrabbiata finalmente la legge n. 1102 del 9/08/1948 viene cancellata con la legge 31 ottobre 1965, n. 1261



Però non esageriamo…

Sempre per non esagerare nello stesso giorno si aumentarono l’indennità parlamentare da 500.000 lire mensili nette a 800.000 lire lorde (750.000 nette).
Della serie,“calma con i facili entusiami”.


Sì, Mussolini ha fatto anche delle cose buone. Insomma...

Johannes Bückler


venerdì 27 maggio 2016

Ragazzi di buona famiglia


Milano, 28 maggio 1980 ore 8.30

La sveglia rossa, enorme di bambino, lo svegliò.
L’aveva caricata e controllata scrupolosamente per essere certo di non mancare all’appuntamento. Si vestì e andò in cucina dove trovò il padre intento a bere una tazza di caffè. Gli fece compagnia.
Fuori pioveva. Non forte, solo una pioggerellina fine, fine.

Dopo aver fatto colazione Paolo (questo il suo nome) uscì in strada, inforcò la bicicletta di papà appoggiata in fondo all’androne e si diresse verso la stazione di Porta Genova. Lì aveva appuntamento con i suoi amici. “Tra le 9.30 e le 9.45” si erano detti il giorno prima. Ci vollero circa dieci minuti per arrivare alla stazione.

La stazione di Porta Genova è la più antica stazione di Milano, e si vede. Ormai ci passa solo qualche treno di pendolari, niente di più. 

Arrivò sgommando e vide gli amici. C’erano tutti, Marco, Paolo, Fabio e Gianni ad attenderlo. Girò su se stesso, senza parlare, e pedalando piano si mise alla testa del gruppetto. Arrivarono ben presto in via Solari dove trovarono Ippo, che si allontanò di corsa facendo finta di non vederli. Non era scortesia, lui doveva solo controllare una cosa e dare conferma ai suoi amici. E quello aveva fatto, per oltre due ore. Ora che li aveva visti arrivare poteva tornare a casa sua ad Arona.

Paolo accelerò, fece il giro dell’isolato e appoggiò la bicicletta alla fermata ATM. Marco e l’altro Paolo sopraggiunsero da Via Cerano seguiti a breve distanza da Fabio. Paolo osservò Marco e l’altro Paolo fermarsi vicino all’edicola. Notò l’assenza di Gianni, ma sapeva benissimo dov’era. Aveva parcheggiato la Peugeot grigia metallizzata in Via Salaino ed aspettava, come da accordi, seduto alla guida.

Ora toccava a lui. Il suo compito era quello di osservare. Al momento giusto avrebbe inforcato nuovamente la bici avvisando con quel gesto i suoi amici. Fu un’eternità quei 45 minuti passati sotto la pioggia.

Poco prima delle 11 la pioggia smise di cadere proprio nello stesso momento in cui vide l'uomo. Saltò sulla bici come un fulmine e pedalò velocemente senza voltarsi. Marco e Fabio capirono e si spostarono verso il numero civico n. 2.

L'uomo era uscito di casa, aveva un impermeabile blu sbottonato e un ombrello che usava come un bastone da passeggio. Camminando tranquillo giunse all’incrocio con via Salaino, si infilò tra le auto parcheggiate e si diresse verso l’edicola. “Vorrà comprare un giornale” pensò Marco e, seguito da Fabio, si allontanò velocemente dall’edicola. Inaspettatamente l'uomo tornò indietro dirigendosi verso via Valparaiso.  Era lì, in un garage, che teneva la sua Ritmo. Gianni, che attendeva all’interno della Peugeot, vide negli specchietti la scena. Lui davanti,  e dietro, con passo spedito, Marco e Fabio che si avvicinavano all'uomo.

Arrivato alla sua altezza Fabio estrasse una 7,65 col silenziatore a sparò. Il primo proiettile entrò “nella regione sternocleidomastoidea superiore sinistra”. Entrò e uscì all’altezza del naso. L'uomo vacillò. Il secondo proiettile si “conficcò nell’emitorace sinistro a 125 cm dalla pianta dei piedi facendo un foro di 0,5 cm”. “Perforò quindi i lobi inferiori e superiori del polmone sinistro, uscendo dalla regione sternoclaveare”. L'uomo rotolò sul fianco sinistro, tra due Fiat parcheggiate. Cadendo la sua Parker scivolò dal taschino della giacca. Il terzo proiettile “lacerò i tessuti molli dell’emitorace destro”. Non ci furono altri proiettili dall’arma di Fabio perché la pistola si inceppò. Fabio continuò a premere, ma senza successo.

Marco nel frattempo gli era arrivato vicino. Estrasse la calibro 9 con silenziatore e sospirò pensando che aveva anche un 38 Smith & Wesson per ogni evenienza. Sparò, ma il primo colpo mancò il bersaglio. Il secondo “perforò il polmone, attraversò l’arteria polmonare e l’aorta andando a conficcarsi a 140 cm dalla pianta dei piedi”. L'uomo era già morto.

Furono le grida dal palazzo di fronte a risvegliare Marco e Fabio dal torpore. La Peugeot era vicina, Fabio gridò “andiamo, andiamo” e si diresse verso l’auto salendo a fianco di Gianni. Marco lo seguì salendo dietro. L’auto partì sgommando.

Paolo stava pedalando di buona lena. Voleva arrivare a casa il prima possibile per ascoltare il conduttore del Tg delle 12.45. Aria contrita e di circostanza avrebbe aperto il telegiornale con la notizia :”L'uomo è stato ucciso”. L'uomo è Water Tobagi.



Sono da poco passate le 11 di mercoledì 28 maggio 1980. Paolo,  sulla bicicletta del padre, percorre Via Stendhal a Milano.

29 maggio 1980
Marco è nel suo appartamento in Via Solferino a Milano. Ha scritto il documento di rivendicazione dell’assassinio di Walter Tobagi. E’ soddisfatto. Una lunga sintesi di anni di lotta, fin dai tempi di Guerriglia Rossa, i suoi inizi, alla Brigata 28 marzo, il presente.

Milano, 15 settembre 1980 ore 19.00
Marco è entrato nella bar-pasticceria Gattullo di Piazzale di Porta Lodovica. Un posto raffinato adatto a gente come lui di buona famiglia. Sono tutti lì, a parte Gianni che non sono riusciti a contattare. E' la prima volta che si ritrovano tutti insieme. Appoggiati al bancone di marmo leggono sull’Espresso” una notizia: il Generale Dalla Chiesa ha dichiarato ad una commissione d’inchiesta che sono vicini ad arrestare gli assassini di Walter Tobagi. Pagano il conto, escono dal locale e si incamminano sorridendo parlando del futuro.

Milano, 25 settembre 1980
Marco è seduto nel suo appartamento di Via Solferino. Nemmeno se ne accorge. Si ritrova ammanettato. La caserma di Porta Magenta la sua destinazione.


Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Armando Spataro è seduto di fronte a Marco per il primo interrogatorio.

4 ottobre 1980
Marco, nome completo Marco Barbone, ha deciso di vuotare il sacco. Il Parlamento italiano sta per varare una legge che assicura sconti di pena agli assassini che permettono l’arresto dei loro compagni. Basta rinnegare tutti i propri ideali, rinnegare 10 anni di lotta armata e si può farla franca. E prende la palla al balzo. Confessa e denuncia i suoi compagni.

Tutti i componenti della Brigata 28 marzo verranno arrestati grazie alle confessioni di Marco Barbone.
                                                       Il processo e la liberazione.

Anno 2008

Marco Barbone.
Figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni, aveva frequentato tra il 1971 e il 1976 il Liceo classico Giovanni Berchet di Milano.  Nel 1983, condannato a 8 anni e 9 mesi di reclusione, venne immediatamente scarcerato perché gli fu riconosciuto il  pentimento. Diventerà collaboratore di giustizia. Nel 1985 la corte d’appello confermerà la scarcerazione. Nel 1986 la Cassazione respingerà ogni ricorso da parte dei legali di parte civile. Oggi lavora nel campo editoriale. Convertito al cattolicesimo, è entrato in Comunione e Liberazione. Ha avuto incarichi nella Compagnia delle Opere.

Paolo Morandini (il ragazzo della bicicletta).
Figlio di Morando Morandini, attore e critico cinematografico. Come Marco Barbone divenne subito collaboratore di giustizia e ottenne la libertà provvisoria. Le ultime notizie lo danno a Cuba. 

Gianni (l’autista sulla Peugeot).
Vero nome Daniele Laus. Il padre era dirigente in un'azienda di acque minerali, la madre insegnava lingue. Quando fu stato arrestato era iscritto alla facoltà di architettura di Firenze. In precedenza aveva frequentato il liceo classico Beccaria a Milano. Confessò come Marco Barbone, ma poi ritrattò. Condannato 27 anni e 8 mesi in primo grado. In secondo grado la pena scese a 16 anni. Venne scarcerato dopo soli 5 anni di carcere. Oggi lavora come free-lance in campo editoriale.

La nuova legge sulla carcerazione preventiva prevedeva che chi aveva usufruito dell' articolo 4 in qualità di dissociato (ottenendo così una condanna inferiore ai vent'anni di reclusione), poteva lasciare il carcere dopo almeno quattro anni di custodia cautelare. Daniele Laus ne aveva fatti già cinque e per questo venne scarcerato.

Paolo (l’altro Paolo). Detto “Cina”, vero nome Francesco Giordano.
Incaricato di coprire gli assassini di Walter Tobagi. Capì l’assurdità di quello che avevano fatto, e per questo preferì pagare senza avvalersi della legge sui pentiti. E fu l’unico. Gli venne comminata la pena più alta, 30 anni in primo grado e 22 in secondo grado. Ora vive a Milano con la famiglia.

Fabio detto il francese, vero nome di Mario Marano.
Fu lui ad esplodere i primi colpi contro Water Tobagi. Si pentì tra il primo e secondo grado e per questo condannato a soli 12 anni di reclusione. Ora vive lontano dalla politica essendosi avvicinato “a una visione cristiana della vita”.

Nel 1980 operavano a Milano 77 organizzazioni clandestine di estrema sinistra. Le Brigate Rosse e Prima Linea su tutte. 



“Evitiamo che si avveri, così come vuole il terrorismo, l’imbarbarimento del Paese. Non interrompiamo mai un civile dibattito”. (Walter Tobagi)


Johannes Bückler