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lunedì 21 settembre 2015

Rosario Livatino e un eroe normale


Anno 1990
Lui si chiama Pietro Ivano Nava. Nato nel milanese vive ora a Monte Marenzo, Mùt Marens come dicono da queste parti.
Ha 40 anni e lavora come agente di commercio, rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate  ' Dierre' di Villanova d' Asti.

21 settembre 1990 
E’ venerdì, e fa caldo. Pietro si trova in Sicilia per lavoro, destinazione Agrigento. Assorto alla guida della sua Lancia Thema, sulla statale 640, si accorge solo all’ultimo della Ford Fiesta rosso amaranto ai lati della strada. La portiera è aperta sulla destra.

Accanto c’è un ragazzotto col volto coperto da un casco. Più avanti un altro uomo sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, e impugna una pistola. Sta inseguendo qualcuno che cerca di mettersi in salvo nel vallone bruciato dal sole. Inseguito lungo la scarpata, l’uomo che scappa inciampa.


Vede l’uomo con la pistola e il volto scoperto braccarlo come un animale. L'uomo spara, lo colpisce. Si avvicina e l’uomo a terra urla “Cosa vi ho fatto?” L’uomo dal volto scoperto si avvicina: “Prendi pezzo di merda” e gli scarica addosso altri quattro colpi di pistola. Per finirlo. Pietro è poco distante e vede bene l’assassino in faccia. A terra, ma lo scoprirà più tardi, rimane un giovane magistrato: si chiama Rosario Livatino.

Pietro accelera spaventato e raggiunge Agrigento. Cerca un telefono. Non ha esitazioni, sa benissimo cosa può essere successo, i metodi sono quelli mafiosi. Ma non indugia un attimo. Afferra il telefono e chiama la polizia: ”Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo"

Nel 1990 non esiste ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Solo la Legge 41/2001 introdurrà la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana. 

20 ottobre 1990
Pietro è stato licenziato. “Non vogliamo guai” gli hanno detto in ditta.

8 aprile 1992 – Inizia il processo
Si è presentato in aula camuffato con barba e baffi finti e protetto da un paio di occhiali scuri per evitare ritorsioni. Ma nella deposizione non ha avuto esitazioni. Pietro Ivano Nava, il supertestimone dell'agguato che costò la vita al giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla statale Caltanissetta-Agrigento, ha indicato ai giudici della corte d'Assise di Caltanissetta Domenico Pace e Paolo Amico come gli esecutori del feroce omicidio.
Per motivi di sicurezza (il testimone dal giorno del delitto vive in Germania protetto dalla polizia), la deposizione è avvenuta nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia. Grazie al riconoscimento degli imputati, ieri assenti, fatta dal testimone, gli inquirenti sono riusciti ad identificare in Pace il presunto uomo che, pistola in pugno, inseguì in un fossato il giudice Livatino mentre questi tentava di sfuggire al sicario, e in Amico il complice con il casco integrale fermo in strada.
(Entrambi saranno catturati in Germania).
La testimonianza di Nava è stata lineare e ricca di dettagli; il teste, un uomo di grossa corporatura, ha cercato di rendersi irriconoscibile, rifiutando anche di essere ripreso dalle telecamere, non ha tradito alcuna emozione od incertezza, nonostante i tentativi del difensore di Pace, avvocato Salvatore Rossello, di farlo apparire inattendibile.

Numerose, infatti, sono state le contestazioni mosse al testimone dal penalista ed hanno riguardato, in particolare, le modalità che portarono alla ricognizione degli imputati e la descrizione dell'uomo che sostiene aver visto scavalcare il guardrail della strada per rincorrere il magistrato.
Nava, rappresentante di commercio originario del Nord Italia e in Sicilia il 21 settembre per questioni legate alla sua attività professionale, ha raccontato che quel giorno giunse con la sua auto a pochi metri dal luogo in cui stava avvenendo l'omicidio. «Vidi un uomo scavalcare il guard-rail impugnando una pistola - ha detto -, aveva i capelli castani, senza baffi, con zigomi marcati e la carnagione chiara. Lo vidi di profilo poiché era in posizione perpendicolare rispetto alla strada. Indossava una camicia a scacchi e un paio di pantaloni di colore beige.
Un'altra persona con un casco era invece ferma sulla strada». Rispondendo anche alle domande del pubblico ministero Ottavio Sferlazza, Nava ha quindi fornito ulteriori elementi riguardo la posizione ed i movimenti delle due persone che presero parte all'agguato.
(La Stampa 8 aprile 1992)

Giugno 1994
Pietro Ivano Nava è oggi un fantasma. E' stato cancellato dai registri dell'anagrafe, dall'elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari.

Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un'isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un'altro Paese europeo. Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e bambini. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemente non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un'altra società.

Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere.

A volte con efficienza, a volte con un'esasperante lentezza burocratica. Io non sono un 'pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un'immacolata fedina penale". E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".
(La Repubblica)

Alla sua vicenda è dedicato il film “Testimone a rischio” del 1996, con Fabrizio Bentivoglio, vincitore per l'interpretazione di un David di Donatello, e prima ancora il libro “L'avventura di un uomo tranquillo”, dove si mostra come la vita di un onesto cittadino si trasformi in seguito alla testimonianza.

"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l'uno né l'altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un'entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...".

Nel 1990 il giudice Rosario Livatino è l'ottavo magistrato che viene ucciso dalla mafia in Sicilia a partire dagli Anni 70. Il primo a cadere sotto i colpi dei killer fu il procuratore capo Pietro Scaglione. Otto anni dopo, il 25 settembre 1979, venne ucciso il giudice Cesare Terranova. Il 6 agosto 1980, sempre a Palermo, fu assassinato il procuratore capo Gaetano Costa. Il quarto magistrato ucciso dai killer della mafia fu il sostituto procuratore di Trapani Ciaccio Montalto, assassinato a Valderice la notte tra il 24 e il 25 gennaio '83. Lo stesso anno, il 29 luglio, a Palermo veniva compiuto, con un'auto-bomba, l'assassinio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Ancora a Trapani veniva assassinato il 14 settembre 1988 il magistrato in pensione Alberto Giacomelli, e undici giorni dopo, cioè la notte del 25 settembre, veniva ucciso con il figlio vicino a Canicattì il giudice Antonino Saetta. Livatino aveva 36 anni ma già si era occupato delle prime avvisaglie di una tangentopoli siciliana e di vicende di mafia che avevano rivelato l'esistenza della ''stidda'', un'organizzazione in ascesa che contendeva a Cosa nostra il controllo delle nuove frontiere criminali: appalti, traffico di droga, riciclaggio.

Due dei quattro sicari, Domenico Pace e Paolo Amico, furono arrestati subito in Germania dove avevano cercato rifugio. Vennero individuati sulla base delle indicazioni di un agente di commercio, Pietro Ivano Nava, che al momento dell'agguato stava viaggiando sulla Agrigento-Canicattì. Scoperti anche gli altri responsabili e i mandanti per i quali sono stati celebrati tre distinti processi. Dalle indagini è emerso che Livatino venne ucciso perchè ''perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia''. Il progetto criminale era stato ideato da Giovanni Avarello, esponente di una cosca emergente a Canicattì contrapposta a un vecchio clan capeggiato da Giuseppe Di Caro e legato a Cosa nostra. Con l'uccisione del giudice ''ragazzino'' la ''stidda'' avrebbe voluto dare una dimostrazione di forza a Cosa nostra. Pace e Amato sono stati condannati all'ergastolo con gli altri due componenti del gruppo di fuoco, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro. (Live Sicilia)

Sei sono stati gli ergastoli inflitti complessivamente a mandanti ed esecutori del delitto costato la vita al giudice Rosario Livatino. L’inchiesta che ne seguì svelò come la Germania fosse la base degli “stiddari”. Nella nazione tedesca Parla era conosciuto come un grosso imprenditore impegnato nell’export di gelati.

 «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi» diceva Bertolt Brecht. In verità questo Paese avrebbe bisogno di più eroi. Anche solo normali. Come Pietro Nava, “morto” quella mattina del 21 settembre 1990 e che ancora oggi continua a ripetere di avere fatto solo una cosa normale.


Johannes Bückler


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