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mercoledì 27 gennaio 2016

Il giorno della memoria. Un bergamasco nel campo di Buchenwald.


Il primo fu Dachau, 22 marzo 1933, su iniziativa dell’ex venditore di polli Heinrich Himmler. (In realtà, a Waldtrudering, Himmler non aveva solo polli, ma anche tacchini, conigli e persino un maiale. Aveva lasciato l’attività alla moglie quando era entrato a far parte delle SS nel 1929).

La decisione di aprire il primo campo di internamento per prigionieri politici venne presa quaranta giorni dopo la presa del potere di Hitler. A Dachau seguirono altri campi. Lichtenburg, Sachsenhausen, Buchenwald, Mauthausen e altri. In totale diciotto. Attorno ai 18 campi base vennero organizzati altri 1080 sottocampi di lavoro che traevano la materia prima (i prigionieri) dai campi base, e ve la rimandavano quando era inservibile, per l’eliminazione. Inizialmente i campi avevano formalmente finalità differenziate ed erano suddivisi in 4 principali categorie.

TIPO UNO: si ponevano come scopo la rieducazione dei prigionieri e miravano alla formazione di una ideologia che fosse in sintonia con quella nazista.

TIPO DUE: anche questi lager si prefiggevano gli scopi di quelli del primo tipo, ma con minor speranza di successo; erano quindi riservati ai "criminali" ritenuti più pericolosi. Da questi lager era possibile, in alcuni casi, sperare di poter uscire.

TIPO TRE: si era assegnati ai campi di questa categoria quando il ritorno alla vita civile veniva ritenuto indesiderato. Non esistevano speranze. Il prigioniero veniva sfruttato nelle sue possibilità di lavoro, fino all'annientamento per indigenza e fatica.

TIPO QUATTRO: erano lager di puro sterminio, dove non si richiedeva più alcuna prestazione lavorativa ai prigionieri, i quali, nel più breve tempo possibile, dopo l'arrivo; venivano uccisi.

Durante la guerra divennero tutti campi di eliminazione. Gestori dei campi erano le SS; gli utili provenienti dal lavoro e dalle requisizioni dei beni dei prigionieri erano di loro proprietà.

Ma cosa avveniva nei campi? 

22 marzo 1933 

A costruire il campo a Dachau ci sono gli antinazisti tedeschi qui deportati che stanno costruendo i muri, le baracche, alzano i reticolati. Oltre al cancello, per i nuovi arrivati, sfiniti ed inebetiti dal viaggio, comincia, in un rituale allucinante, sistematico e preordinato, l'annullamento della volontà, la spersonalizzazione. Vengono controllati, derubati di tutto ciò che hanno portato con sè; non devono possedere nulla che possa in qualche modo ricordare loro il tempo in cui sono stati uomini, nulla tranne il proprio corpo che non è più loro, svuotato come è di ogni coscienza. Si incomincia con una rozza depilazione, disinfezione con la creolina, la doccia ora caldissima ora gelida, quindi la vestizione, l'assegnazione del numero e del simbolo relativo alla propria condizione.
Vita, disciplina, violenza e morte nei campi.
La sveglia prima dell'alba, quindi l'appello numerico dei prigionieri sul piazzale centrale, con qualunque tempo. Poi il lavoro forzato per undici­, dodici ore senza un attimo di sosta, senza tregua, spesso a mani nude o con attrezzi rudimentali. Sull'ingresso di tutti i campi si può ancora leggere la scritta: "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Alla sera ancora un appello numerico sul piazzale centrale. A volte si protrae per ore ed ore, a volte intere notti, con la pioggia, la neve, il gelo, con custodi pronti a colpire chi si muove o si sposta o anche senza una ragione, perchè si è nulla, meno che bestie.

E poi le punizioni; alcune vengono eseguite all'aperto sul piazzale centrale davanti ai prigionieri, altre si svolgono in speciali luoghi di sofferenza e in modi e forme che solo l'inesauribile fantasia delle SS può inventare... Dalla privazione del vitto, pur continuando in pieno il lavoro, alla detenzione nell'oscurità di celle fredde e piccole, senza cibo, né indumenti per molti giorni, al rimanere in piedi per giorni e notti intere con qualsiasi tempo; alle marce in ginocchio, nel fango, nella polvere, nella neve; alla tortura, alla fustigazione, feroce e pubblica; alla sospensione al palo per i polsi con le mani legate dietro la schiena che porta in pochi minuti alla perdita di coscienza e al deliquio; agli esperimenti scientifici su cavie umane dal vivo per misurare la capacità di resistenza alla morte procurata Gli esperimenti dei medici nazisti sono espressioni di puro sadismo, nulla può trarre la scienza dall'impiego degli internati e dei prigionieri come cavie umane.

Una storia di orrori di cui la professione medica tedesca non può certo andarne fiera; da rilevare che questa opera criminale era nota a migliaia dei principali medici del Reich; nemmeno uno, per quanto si sa dai documenti, innalzò la benchè minima protesta pubblica. 

Ma su tutto sempre incombente, la fame; con essa ogni coraggio scompare, ogni ammutinamento, ogni volontà di ribellione diventa impossibile, ogni movimento costa fatica. Dopo pochi mesi la denutrizione porta alla dissenteria, alla allucinazione, all'inerzia, alla rassegnazione di lasciarsi morire, alla pazzia. E’ possibile sopravvivere? La macchina del lager non prevede la possibilità che qualcuno esca vivo da questi luoghi; la fame, il lavoro coatto, le punizioni, riescono ad eliminare un numero enorme di deportati già dai primissimi giorni di prigionia.
Anche la disperazione uccide; molti si procurano la morte lanciandosi sui reticolati, o buttandosi, (come avverrà a Mauthausen), da uno strapiombo sito sulla carreggiata che porta alla cava di pietre. Resistono più a lungo coloro che hanno o hanno avuto uno scopo, un'idea capace di riempire il cuore e la mente: soprattutto i politici, i religiosi, gli uomini di fede... Per una minor resa nel lavoro bisogna lasciare il posto ai nuovi arrivi, a nuovi infelici che indossano le stesse casacche, gli stessi zoccoli, perchè "la costruzione del Reich non conoscesse soste né ritardi". Di quanti avessero ormai esaurito ogni energia bisognava che non restasse traccia. L'annullamento, iniziato al momento dell'ingresso al campo, trovava la sua coerente conclusione nelle camere a gas e nei forni crematori. Ma se le SS erano i sapienti registi di questo criminale disegno di violenza e di morte, altri, i kapò ne erano i più diretti e spietati esecutori.
Nelle baracche, nei posti di lavoro, vige una gerarchia tra i prigionieri, in fondo alla quale stanno gli ebrei destinati alla eliminazione immediata, e poi gli italiani e i russi, i traditori, ai quali vengono affidati i compiti più sporchi, più umilianti e massacranti; per questi schiavi, per un nonnulla, la punizione è immediata e terribile, talvolta estrema; la disciplina è in gran parte affidata ad elementi scelti fra gli stessi detenuti, in una sorta di selezione alla rovescia; sono i delinquenti comuni, i criminali, i tirati fuori dalle galere e dagli ergastoli che vengono armati di scudiscio e di un potere illimitato di vita e di morte sugli altri, in cambio di una obbedienza cieca e di una sopravvivenza più comoda: sono i kapò, gli aiutanti, il braccio odiato, temuto di cui le SS si servono fin dentro le baracche, perchè l'asservimento sia completo. Schiavi che brutalizzavano altri schiavi. Sembrerebbe impossibile, impensabile, che degli internati diventassero carnefici dei loro stessi compagni di sventura.
"Allora il vero nemico" - dice un ex internato di Dachau - "è soprattutto dentro di noi e ci sconfiggerà se, per un pezzo di pane in più o una staffilata in meno, non sapremo resistere, e ci faremo ingranaggio della abietta macchina nazista".

Un bergamasco nel campo 

Bonifacio RAVASIO, nato ad Alzano Lombardo il 24/5/1927 
Professione prima della cattura: impiegato alla STIPEL 
BUCHENWALD: Matricola 33843 

Questo il suo racconto: 

Ero impiegato alla SIP (ex STIPEL) di Bergamo. Mio nonno era un puro socialista. Per la sua idea fu confinato e più volte percosso ed umiliato. La mia famiglia dai fascisti fu martoriata.

Io sono cresciuto antifascista (per giuste ragioni).

Nella Repubblica di Salò appena costituita, collaborai con i patrioti nello svolgere propaganda e distribuendo manifesti. Alla STIPEL la maggior parte dei dirigenti era fascista ed hanno contribuito a peggiorare la mia situazione.
Ricercato dai repubblichini, il 22 aprile 1944 fuggii fino a Tarcento (Udine), da conoscenti.
Durante un rastrellamento fui fermato dalla SS tedesca e venni rinchiuso nelle carceri mandamentali del luogo. Ben presto seppero che ero ricercato. Subii interrogatori e ben si conoscevano i sistemi della Gestapo. Il 30 aprile 1944 mi trasferirono nelle carceri di Udine in una cella 4 metri per 4.

Per terra stesero paglia (come nelle stalle) ed eravamo in 26 prigionieri politici. Per la maggior parte di essi ricordo ancor oggi i nomi. Il 15 luglio, caricato sui carri bestiame, fui portato nel campo di sterminio di Buchenwald, con il numero 33843, che fu il mio nome per tutto il periodo. Questo numero mi fu tatuato persino sul braccio sinistro e sul fianco sinistro del corpo.

Fame, maltrattamenti, impiccagioni, il forno crematorio ogni giorno in funzione: si sentiva odore di carne umana bruciata. Ma si moriva anche di sfinimento, deperimento organico. So che facevano esperimenti e sentivo questo anche su di me. Non sono mai tornato quello che ero prima.

Il 6 agosto 1944 c'è stato il bombardamento del campo di Buchenwald da parte degli americani. In quella situazione è morta la principessa Mafalda di Savoia che però non stava nel campo con noi, che era maschile, ma in una delle baracche esterne. Io l'ho vista dopo morta: su un bancone di marmo. Ci hanno svegliati quella notte per farci vedere la nostra principessa morta. Ricordo l'episodio di Cachi, il socialista: è stato impiccato, ma quando è stato ucciso io non lo sapevo. L'ho saputo più tardi. E un altro Adobati, anche lui impiccato.

C'erano la camere a gas e gli ebrei erano eliminati lì dentro. Quelli a sangue misto resistevano di più. Saremo passati in 100.000 a Buchenwald, vedevo arrivare le tradotte. Nelle baracche c'erano 4 file di castelli a due piani. Eravamo in 1200 per baracca che era circondata di filo spinato con la corrente e garitte con mitragliatrici. Nessuno poteva scappare da lì. Da Buchenwald credo che nessuno sia riuscito a fuggire. Quando c'è stato il bombardamento che ha divelto i reticolati qualcuno forse ce l'ha fatta. Ma di fughe non se ne parlava. Si parla di ribellione negli ultimi giorni e che i detenuti si siano liberati, ma questo è stato possibile solo perché le guardie sono fuggite, ma le SS tennero duro fino all'ultimo momento.

C'erano misure tali che nessuno avrebbe potuto superare con un tentativo di fuga. Dopo due lunghissimi mesi, augurandomi solo la morte, mi trasferirono ad Oshenleben (Maddenburgo), campo di concentramento peggio di Buchenwald. Eravamo in duemila ed ogni mese ne rimpiazzavano in media 200 ed eravamo sempre in duemila. Lavoravamo in una miniera di sale 600 metri sotto terra, posta nelle vicinanze del campo. Ho lavorato lì 7-8 mesi. Si costruivano gli aerei. Sfiniti, fame, sporcizia ecc., quelli che non riuscivano a camminare o ad alzarsi dalle cuccette (chiamiamole così) venivano fucilati.

Alla domenica c'era lo "spettacolo" delle impiccagioni e le torture erano sadismo. Ho assistito ad impiccagioni di prigionieri che avevano rotto il manico della pala o del piccone e ritenuti sabotatori. Sono stati lasciati morti per tre giorni legati ai pali perché se ne prendesse esempio.
In una galleria trovarono una guardia morta. Il giorno seguente presero 40 di noi, li caricarono su di un carro agricolo e li portarono fuori dal campo. Dopo un'ora il carro tornò con 40 cadaveri e colava sangue da tutte le parti. Per fortuna c'erano alcuni internati militari italiani che mi davano qualche rapa. Questo mi ha salvato in miniera, dove ci davano solo una brodaglia con i torsoli delle verze. Inutile dilungarsi su questi casi, potrei raccontarne cento. Nell'aprile 1945 ci incolonnarono, il fronte americano ormai era vicino, 3 giorni a piedi, senza mangiare, qualche ora per riposarsi sul ciglio delle strade. Lungo il cammino chi cadeva o non ce la faceva più veniva fucilato.

Noi stessi li seppellivamo sotto pochi centimetri di terra. Arrivammo in una città, non ricordo il nome, ci caricarono su due barconi, che usavano per trasporto merci, ci rinchiusero dentro, stretti come sardine, percorrendo il fiume Elba. Il giorno seguente, dopo 4 giorni di assoluto digiuno, ci diedero 2 cucchiai di pasta cruda a testa. Il giorno 6, sollevando un'asse di questo barcone, una guardia ci gettò delle fetta di pane e, mancandone una, lo facemmo presente.

Come risposta estrasse la pistola uccidendo uno di noi e dicendo che così le razioni ora erano giuste.

Nel nostro barcone avevamo 12 morti di deperimento, odori di putrefazione, non ci facevano mai scendere neanche per quei pochi bisogni: 12 morti, non si sono mai preoccupati di levarceli. Ricordo il 7 maggio 1945, (il 6 c'era stato il bombardamento di Dresda) e ho saputo dopo che hanno sparato ad un prigioniero che ha tentato di buttarsi giù dal barcone ed il giorno dopo la guerra era finita. I partigiani tedeschi hanno resistito fino all'ultimo ed anche dopo contro russi ed americani.

8 maggio 1945.

Seppi dopo che attraversammo Dresda prima e ci trovavamo a Lovosice a 30 km da Praga. Sulle due sponde si affrontavano i due eserciti: russo e tedesco. I due barconi in mezzo al fiume Elba furono colpiti. Solo i russi rendendosi conto che era pieno di prigionieri riuscirono a trarne in salvo poche centinaia. Ci hanno liberato i russi.
Mi svegliai il 10 maggio dopo due giorni di coma. Partii per casa il 30 giugno 1945 con croce rosse russe poi americane. Un ufficiale americano mi ha detto: "Hai la fortuna di andare a casa, non raccontare mai quello che hai visto, perché ti prenderebbero per pazzo".

Da Bolzano ripartii con croce rossa pontificia. I miei genitori si misero a piangere insistendo che non ero loro figlio. Pesavo 37 chili, rapato a zero e con cicatrici in testa. Fui curato per oltre tre mesi. La mia salute non è più tornata normale. Non dimenticherò mai quanto ho visto e subito. Finché vivrò ai miei figli e nipoti ho insegnato e insegnerò ad odiare ogni forma di dittatura e di lottare sempre per la libertà. Ho descritto solo in minima parte le crudeltà naziste e fasciste nel campo di Buchenwald e nelle carceri di Udine.

Noi non ci riconoscevamo nemmeno, mia madre non mi riconosceva. Però la cosa più ferita è la testa. Non ho più avuto la testa di prima. Io ho veramente assistito a quelle crudeltà e quando se ne parla e vengono rievocate sto male. I fatti sono tanti e terribili. E non abbiamo avuto gran riconoscimenti. Io non ero nemmeno in grado di riprendere il lavoro alla STIPEL.

Ho poi trovato lavoro come esattore e come magazziniere alla FIAT, ma non sono stato più quello di prima.

Non so gli altri, ma per me i danni sono stati irrecuperabili: gli spaventi, le botte prese anche senza alcun motivo, la deportazione stessa su quella specie di vagone bestiame ...
Gli internati militari non potevano parlare con noi, ma sotto terra nelle saline ci si incontrava. C'erano Musatti, gli Ala ..., poi Faldelli ecc. e questi sono tornati dicendo che ero finito perché loro sono rimasti lì mentre noi abbiamo camminato tre giorni senza mangiare e questa è stata l'ultima botta. Quelli che cadevano venivano uccisi.
E così i miei, quando sono arrivato, non credevano ai loro occhi.
Ero in uno stato tremendo: mi portavano in giro in una carrozzina, non mi reggevo più in piedi. Io devo aver subito un trauma cranico, poiché ne ho dei postumi riscontrati anche dai professori. Infatti di due o tre mesi della vita al campo di concentramento non ricordo più nulla. Ho sempre un ronzio nella testa e non riesco a capire cosa sia. Dovrei fare la TAC.

Tratto da BERGAMASCHI NEI CAMPI KZ (Testimonianze) Ed. A.N.E.D.

Johannes Bückler

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